- Categoria: Risonanze
- Scritto da Nunzia Manzo
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Rudolf dai grandi occhi
Una segnalazione anonima ci aveva spinto ad indagare su quel nucleo familiare. La casa era distante dal centro del paese, piuttosto isolata, ed avemmo difficoltà a raggiungerla nonostante fossimo scortate dalla polizia municipale. Non so dire quanto tempo ci volle per arrivare ma mi parve un tempo lunghissimo.
Avevo mille pensieri, ma soprattutto sentivo che stava per accadere qualcosa di forte. Ho sempre avuto questa sorta di dono-dannazione, che mi permette di avvertire emozioni che preannunciano accadimenti, e così sapevo di essere sul punto di vedere qualcosa che avrebbe cambiato alcune mie opinioni. Quando lavori nei servizi sociali devi spesso riflettere e discutere su questioni relative a genitorialità, abbandono, abuso, maltrattamento, allontanamento. E devo dire che, contrariamente a quanto espresso da luoghi comuni, le assistenti sociali sono parecchio restìe a separare i bambini dai loro genitori naturali, sono convinte che essi vogliano la propria madre e il proprio padre anche se questi non sono in grado di dispensare cure sufficienti, anche se sono “cattivi genitori”. Ed è davvero così, ma soltanto perchè non conoscono altro.
Io avevo per lungo tempo condiviso quest’idea, e negli interventi a tutela dei minori, in situazioni di carenze genitoriali, anche gravi, la nostra principale preoccupazione era stata quella di fornire servizi che permettessero ai bambini di rimanere all’interno del proprio nucleo familiare, considerando la possibilità di un allontanamento, anche temporaneo, soltanto come ultima spiaggia, in caso di mancato raggiungimento di, seppur minimi, obiettivi. Ma qualcosa non mi convinceva mai abbastanza, che stessimo facendo la cosa giusta. Quello che mi tormentava era il pensiero che mentre si sperimentava l’eventuale efficacia di interventi a supporto e rafforzamento delle capacità genitoriali, i bambini continuavano ad essere danneggiati da contesti e persone assolutamente inadeguati al tanto citato “benessere psicofisico”, e per quanto il monitoraggio fosse continuo e costante, io, che sono uno psicologo, so bene che per un bambino anche un solo giorno, anche un singolo istante, possono fare una differenza enorme perché rappresentano esperienze incidenti su un piano strutturale oltre che funzionale.
Quando incontrammo gli occhi di Rudolf, fu la prima volta che leggemmo nello sguardo di un bambino una disperata richiesta di aiuto; la maggior parte dei bambini ci appaiono come scollegati dalla realtà in cui vivono, sembrano star bene in situazioni in cui non si può che star male, sono stranamente sereni e sorridenti, e per quanto possiamo essere consapevoli che meccanismi di difesa li inducano inconsciamente ad occultare a se stessi e ad altri le macerie che hanno nel cuore, quell’apparente estraneità a tutto quel male ci illude che essi possano sopportarlo. Rudolf no, lui era diverso, correva come un folle, su un triciclo mal riparato, girando in tondo intorno alla casa mille e mille volte, senza mai fermarsi, come a circoscrivere qualcosa da cui voleva disperatamente tenersi fuori, con l’unico mezzo con cui riuscisse a farlo. Aveva gli occhi fissi, come spiritati. Erano già due occhi grandi, quasi enormi, per quel piccolo faccino contornato da riccioli neri crespi e spettinati, occhi di un verde così chiaro da non poter passare inosservati, con quelle lunghissime e folte ciglia nere che li rendevano spettacolari. Ma quando quegli occhi ci videro arrivare si fecero enormi, Rudolf arrestò la sua corsa e venne verso di noi, con il suo triciclo, i suoi riccioli neri, i suoi piedi nudi e i vestitini sporchi e strappati , ma noi vedemmo soltanto due grandi occhi, che avevano messo le gambe, venirci incontro.
Da quel momento , andando contro tutto e tutti, cominciammo a batterci perché Rudolf fosse allontanato da quella malconcia e maleodorante casa, dove avevo respirato l’angoscia dell’incolmabile distanza che ci può essere dalla bocca di uno all’orecchio dell’altro, uno spazio attraverso il quale non arrivano suoni, parole, e nemmeno silenzi, così infinito da rendere tutto invisibile, persino due grandi occhi con le gambe. Non volli udire ragioni, temporeggiare su nulla. Per la prima volta fui davvero certa di quello che andava fatto, e alla fine la spuntai. Riuscii ad essere così convincente, perché così convinta, che nessun giudice ebbe il coraggio di contraddirmi. E Rudolf ebbe subito una nuova famiglia in cui rifugiarsi per il tempo che fosse stato necessario a riparare quell’orrendo triciclo su cui orbitava pericolosamente. Ma, al di là, se sia stato più o meno possibile riparare quel mezzo, in quella casa Rudolf non ci è voluto mai più tornare. E da allora io sono stata finalmente sicura che, sì, dobbiamo ascoltare i bambini ma non possiamo ascoltare quelli che non conoscono altro che la propria realtà e non vogliono esserne allontanati, dobbiamo ascoltare quelli che, conosciute altre realtà, non vogliono più tornare. I bambini non possono desiderare ciò che non conoscono. Ma noi possiamo desiderarlo per loro.
Autore: Nunzia Manzo, Psicologo e Mediatore familiare con vasta esperienza nel settore dei servizi sociali. Impegnata a collaborare con i Tribunali dei Minori nelle questioni di Affido e Adozione nazionale e internazionale, di Valutazione e Rafforzamento delle competenze e capacità genitoriali, e con i Tribunali Ordinari per la Mediazione Familiare nelle coppie in separazione. Attualmente riveste il ruolo di coordinatore dei servizi in una cooperativa sociale a Benevento.
copyright © Educare.it - Anno XII, N. 6, maggio 2012