- Categoria: Studi e articoli sulla disabilità
- Scritto da Mirko Cario
Breve storia della disabilità
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Nel corso della storia occidentale l'uomo, nella ricerca della normalità e della perfezione, ha cercato di adeguarsi tenacemente ai canoni proposti dalla cultura dominante, respingendo le categorie di diversità fisica e mentale. L'analisi storica che proponiamo in questo studio parte dal presupposto che il concetto di disabilità debba tener conto del bagaglio di immagini che ha plasmato nel bene e nel male la cultura contemporanea, dando vita a stereotipi e stigmi che ancora oggi condizionano, a volte in maniera inconsapevole, le nostre interazioni sociali.
Dall'antica Grecia al medioevo
I valori dominanti dell'epoca classica rispecchiavano l'ideale kalos kai agathos (bello e buono). Forza e bellezza venivano considerati ideali da raggiungere, mentre deformità e malattia non venivano tollerate perché associate alla colpa e alla volontà divina. Qualsiasi imperfezione fisica veniva infatti accostata al male e interpretata in chiave morale e/o religiosa come punizione e castigo.
Questa concezione è ampiamente documentata nella letteratura. Il filosofo greco Aristotele, nell'opera "Politica", sosteneva la necessità di una legge che impedisse ai bambini deformi di sopravvivere perché inutili allo Stato, affermando: “Quanto all'esposizione e all'allevamento dei piccoli nati sia legge di non allevare nessun bimbo deforme” (1).
Ancora prima di Aristotele, il suo maestro Platone affermava che il compito della giustizia e della medicina era curare i cittadini sani nel corpo e nello spirito: “Quanto a quelli che non lo siano, i medici lasceranno morire chi è fisicamente malato" (2).
Platone può essere considerato il precursore del movimento eugenetico, disciplina pseudo-scientifica del XIX secolo che ripropose le riflessioni tipiche dell'età classica sul rapporto tra bellezza e virtù e sul progresso umano. Nel libro La Repubblica di Platone viene menzionato per la prima volta il “razionale allevamento umano”, inteso come strumento del potere nelle mani dello Stato, necessario ai filosofi per perpetuare le loro virtù:
“Conviene che gli uomini migliori si accoppino con le donne migliori il più spesso possibile e che, al contrario, i peggiori si uniscano con le peggiori, meno che si può; e se si vuole che il gregge sia veramente di razza occorre che i nati dai primi vengano allevati; non invece quelli degli altri”(3).
Come spiegato da Mary Douglas nel saggio “Purezza e pericolo" (1966), l'uomo nell'antichità giustificava ogni evento tragico e inaspettato come conseguenza di un illecito e di una violazione di un tabù. Questa caratteristica della cultura greca si riflette nella tradizione ebraica e in particolare nell'Antico Testamento.
Nel Levitico sono elencate una serie di imperfezioni umane che precludevano, agli individui con qualche forma di menomazione, la possibilità di partecipare a qualsiasi forma di rituale religioso:
Il Signore disse ancora a Mosè: «Parla ad Aronne e digli: nelle generazioni future nessuno dei tuoi discendenti che abbia qualche deformità si avvicinerà per offrire il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né il cieco, né lo zoppo, né chi ha una deformità per difetto o per eccesso» (Levitico, 21,16-20).
Con l'affermarsi del Cristianesimo si assiste a un profondo cambiamento culturale con la nascita di una nuova concezione della disabilità: la persona con handicap viene considerata come parte della comunità.
I Vangeli narrano l'incontro di Gesù con malati di ogni genere: ciechi, deformi e paralitici. In diversi passi del Nuovo Testamento vengono esplicitate le credenze popolari della Palestina di quei tempi: l'handicap era considerato una conseguenza del peccato. Secondo quanto riportato dai vangeli, dopo la guarigione miracolosa di un cieco ad opera di Gesù, gli apostoli gli chiesero: “Rabbi chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché egli nascesse cieco? Rispose Gesù: né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è nato cieco perché si manifestassero in lui le opere di Dio”(Giovanni 9 : 1-3).
L'insegnamento attribuito a Gesù rappresenta una posizione innovativa rispetto alla tradizione ebraica precedente, in quanto la menomazione degli individui non viene più interpretata come conseguenza del peccato, ma viene letta come un monito per tutti i fedeli affinché possano compiere opere di bene. Gesù, in questo senso, invita la comunità a esercitare la carità nei confronti dei bisognosi, siano essi poveri, malati o storpi, denunciando ogni forma di diseguaglianza.
L'azione di Gesù può essere considerata uno dei primi interventi terapeutico-educativi nei confronti delle persone con handicap, in quanto non riduce la persona al solo deficit che manifesta e ristabilisce la fiducia della comunità nei confronti dell'individuo "malato" (4).
Dai tempi dei Vangeli alla nascita ufficiale del cristianesimo nel IV secolo, l'idea del peccato cambia significativamente. Il catechismo della Chiesa cattolica romana si allontana dall'insegnamento di Cristo e dei primi cristiani, viene ristabilita la connessione tra malattia e peccato, così che la deformità e la diversità fisica e mentale viene ricollegata a una punizione divina.
La chiesa del V e VI secolo ricorda ai fedeli che il peccato originale accompagna le loro vite e coloro i quali non sapranno conservarsi casti nei giorni proibiti e nelle festività avranno figli malati di lebbra o epilettici per punizione. Inizia così l'era della grande repressione, una nuova etica sessuale che caratterizza, secondo Le Goff, la storia della cultura occidentale: il rifiuto del piacere (5).
La comunità medievale avverte la repressione della chiesa cattolica e nello stesso tempo l'obbligo della carità cristiana, iniziando a farsi carico delle persone disabili. Durante il XII secolo iniziano a svilupparsi i lebbrosari, nei quali venivano assistiti i malati di lebbra in quarantena. L'esperienza di confinamento nei lebbrosari rappresenta il primo stadio dell'istituzionalizzazione.
Sparita la lebbra, cancellato o quasi il lebbroso dalle memorie, resteranno queste strutture. Spesso negli stessi luoghi, due o tre secoli più tardi, si ritroveranno stranamente simili gli stessi meccanismi (6).
L'ospedalizzazione e la nascita della pedagogia speciale
Dal XIII secolo in poi, le persone disabili vengono relegate nelle primordiali strutture ospedaliere, gestite dalle comunità monastiche e dalla Chiesa.
A Londra l'ospedale di St. Mary Bethlehem, noto alla storia come Bed-lem, rappresenta uno dei primi manicomi, famoso per i trattamenti brutali e disumani riservati ai pazienti. Simili strutture nascono anche a Parigi, dove disabili fisici e mentali sono rinchiusi nei due ospedali più famosi di tutta la Francia: Salpêtrière e Bicêtre (7).
Negli stessi anni, gran parte della popolazione europea sviluppa una crescente curiosità nei confronti della malattia mentale, tanto che alcune strutture (a Londra, Parigi, e in alcune città della Germania) diventano teatro della “mostruosità”: come raccontato nel film Bedlam di Mark Robson (1946), al costo di pochi penny, i londinesi potevano visitare l'ospedale Bedlam e osservare i comportamenti bizzarri dei pazienti rinchiusi nelle gabbie come animali da circo (8).
Nel XVIII secolo Denis Diderot (1713-1784) mette in discussione le classificazioni che distinguevano il patologico dal normale. I “mostri”, secondo Diderot, sono il simbolo del potere della natura e offrono la prova che l'ordine naturale delle cose non è perfetto. Nei testi Lettera sui ciechi ad uso di quelli che vedono (1749) e Lettera sui sordomuti ad uso di quelli che sentono e che parlano (1751), l'autore afferma che la pluralità e l'eterogeneità sono alla base dell'organizzazione naturale. Non esiste una norma, un'identità, una fisionomia ma ne esistono tante e i fenomeni della natura, complessi ed eterogenei, sono il risultato di una combinazione di vari elementi.
Assistiamo così a una svolta radicale nella rappresentazione della disabilità: normalità e disabilità vengono considerate due espressioni diverse della stessa natura, anche se “la realizzazione di interventi assistenziali nei confronti delle persone disabili ancora non prelude ad alcuna assunzione di responsabilità sul piano educativo” (9).
L'avvenimento che segnò la nascita della “pedagogia speciale” fu il caso del selvaggio dell'Aveyron, il più famoso tra tutti i casi di ritrovamenti di enfants sauvage.
Nell'estate del 1798 venne ritrovato in Francia un ragazzino di 11 anni, cresciuto in solitudine in una foresta dell'Aveyron. Il sauvage fu oggetto di numerosi studi e attirò l'attenzione di curiosi, medici e persino zoologi, venuti da ogni parte d'Europa per visitarlo. Il ragazzo veniva descritto con una faccia scimmiesca, incapace di parlare e di comprendere, presentava numerose cicatrici su tutto il corpo, camminava a quattro zampe e aveva una particolare attitudine ad arrampicarsi sugli alberi.
Philippe Pinel (1745-1826) direttore dell'ospedale Salpêtrière di Parigi, che rinchiudeva al suo interno malati di ogni tipo, si interessò al caso. Egli osservò che il sauvage presentava dei segni clinici comparabili a quelli dei suoi pazienti, affetti da "idiozia congenita”, ma secondo Pinel il deficit organico era così grave da fargli escludere qualsiasi attività educativa.
Jean Marc Gaspard Itard (1775-1838), allievo di Pinel, prese in cura il sauvage nell'estate del 1800, dandogli il nome di "Victor" e conferendogli un inizio di identità civile e sociale. Itard non volle accettare la diagnosi di Pinel, preferì partire dall'ipotesi che Victor fosse affetto da grave ritardo, sia sul piano cognitivo che affettivo, a causa dell'isolamento sociale prolungato e delle condizioni di abbandono in cui era cresciuto. Egli fu il primo a sostenere che la vita dell'uomo è principalmente una vita sociale, sottolineando come l'assenza di un'adeguata socializzazione possa creare l'handicap. Secondo Itard, soltanto l'azione sociale permette all'umanità di sopravvivere e l'individuo fuori dal contesto sociale non è concepibile. Sulla base di questi presupposti teorici, egli avvia il suo intervento educativo nei confronti di Victor, reinserendolo nella vita sociale, cercando di stimolarlo e di insegnargli l'uso della parola.
Questa vicenda introduce una nuova immagine del disabile nella storia: quella del “selvaggio” da educare. La presa in carico di Victor genera un atteggiamento unico fino ad allora, che consiste nel tentativo di normalizzare l'anormalità attraverso l'educazione (10).
A partire dai primi anni dell'Ottocento, in particolare con la rivoluzione industriale, assistiamo a un altro importante cambiamento. In quegli anni inizia a delinearsi un nuovo concetto di normalità che tende a identificarsi con lo stile di vita e gli ideali della nuova classe sociale dominante: la borghesia.
I nuovi ideali di produttività ed efficienza segnano un'ulteriore esclusione sociale del disabile; il normale è colui che partecipa ai processi produttivi e l'idoneità fisica separa il disabile da chi non lo è. Per tutti coloro che non partecipano alla vita produttiva, perché anormali o devianti, l'istituzionalizzazione rappresenta la risposta generalizzata; si diffondono così orfanotrofi, manicomi, ospedali e carceri, tutte strutture che contribuiscono a perfezionare il sistema di controllo sociale che stava prendendo piede in quegli anni.
I sistemi di classificazione e i tecnici deputati alla loro applicazione, assumono sempre di più un ruolo fondamentale, favorendo lo sviluppo di una nuova rappresentazione sociale del disabile: quella del “malato”, di persona bisognosa di cure, di assistenza e di educazione speciale (11).
Il darwinismo sociale
Il XIX secolo fu segnato dalla rivoluzionaria opera di Darwin l’Origine della specie (1859). In quest'opera Charles Darwin (1809-1882), introduce il concetto di "selezione naturale", meccanismo che agisce sulla variabilità dei caratteri, ossia la conservazione delle variazioni più vantaggiose per l'individuo nelle sue particolari condizioni di vita e l'eliminazione di quelle più svantaggiose.
Nella seconda metà del XIX secolo le teorie di Darwin si diffusero rapidamente anche fuori dall'Inghilterra producendo una vera e propria rivoluzione intellettuale, che modificò in maniera radicale l'immagine della natura e la concezione del mondo.
Il filosofo e sociologo inglese Herbert Spencer (1820-1903) elaborò una teoria sulla libera concorrenza fra gli uomini. Nel suo testo Social Statics (1851), Spencer afferma che in natura vige un “universale stato di guerra”, una legge di eliminazione del più debole a favore del più capace e intelligente, grazie alla quale viene impedito ogni “scadimento della razza”. Secondo Spencer i tentativi di attenuare la “rigida disciplina della natura” sono dannosi, perché la natura si sforza di “fare piazza pulita” degli individui deboli e di dar spazio solo agli individui migliori (12).
Spencer fu il primo ad applicare la teoria evoluzionistica darwiniana alla società, peraltro, travisandola in molti dei suoi aspetti fondamentali: primo fra tutti il concetto di adattamento. Questo segnò l'inizio del "darwinismo sociale", un approccio del tutto ideologico di cui si fece promotrice la nuova classe sociale trionfante, la borghesia, e che consisteva nell'applicazione delle idee darwiniane (in particolare quelle di lotta per l'esistenza e selezione naturale) alla società e alla politica. Le idee di Darwin furono infatti usate in modo del tutto strumentale per sostenere una grande varietà di opinioni sociali e politiche, che comportarono un'inevitabile ostilità tra nazioni e razze, attribuendo una validità scientifica a ideologie totalitarie, come avvenne dopo qualche decennio con quella nazista.
Fu nel XIX secolo, quando gli europei vennero a contatto con altre popolazioni oltre oceano, che nacque l'antropologia razziale: pseudo-scienza che, rifacendosi alla teoria evoluzionistica di Charles Darwin, tentò di dare una base scientifica al razzismo. Le razze umane vennero classificate in base alle qualità fisiche e intellettive e iniziò a svilupparsi il concetto di “razza superiore”. Anche negli Stati Uniti si invocava la teoria di Darwin a supporto della presunta superiorità delle persone di carnagione “bianca”. La stessa comunità scientifica promosse una serie di ricerche volte a studiare l’ereditarietà di quei gruppi che si presumeva fossero biologicamente inferiori (13).
In questo clima le scienze naturali rappresentavano un'autorità incontrovertibile, così che l'antropologia razziale e il socialdarwinismo dell'epoca si tramutarono in forme sempre più estreme di profilassi sociale. È proprio all'interno di questa concezione razziale, tipica della cultura occidentale del XIX e XX secolo, che furono poste le basi per la realizzazione dell'eugenetica.
L'eugenetica e lo sterminio nazista
Il termine “eugenetica” fu usato per la prima volta dall'antropologo inglese Francis Galton (1822-1921), nell'opera Hereditary Genius (1869), per definire lo studio delle condizioni nelle quali vengono "prodotti" uomini superiori.
In Inghilterra si diffuse inizialmente con il nome di “stirpicoltura”, per poi espandersi negli Stati Uniti, in Svezia, in Germania, in Francia e in Italia. L'eugenetica si sviluppò come risposta al timore dell'epoca che la selezione naturale avesse cessato di agire per il miglioramento della specie e che quindi l'uomo dovesse prendere in mano le redini dell'evoluzione.
Galton definì l'eugenetica come la scienza per il miglioramento della specie umana. L'opera di Charles Darwin (cugino di Galton) ebbe un'influenza notevole nel suo pensiero, in particolare il concetto di “lotta per la vita” che per Galton ha una valenza ideologica e sociale. Egli sosteneva che la trasmissibilità dei caratteri avveniva prevalentemente per via ereditaria, senza alcuna influenza dell’ambiente o della società.
Lo scopo dell'eugenetica divenne quindi quello di liberare l'umanità dalle malattie e dalle imperfezioni, incoraggiando la riproduzione degli individui migliori e scoraggiando quella degli individui con qualche forma di disabilità fisica e mentale (14).
Anche gli scienziati italiani furono influenzati dalla corrente eugenetica del XX secolo. Il criminologo Cesare Lombroso (1845-1909), diede un enorme contributo alla diffusione del programma eugenetico in Italia e fornì anche una base teorica all'ideologia razziale del regime hitleriano. Nella sua opera L'uomo delinquente (1878), Lombroso sosteneva che il destino dell’umanità era appiattirsi in una mediocrità sempre più invalicabile, senza genialità e senza spinte in avanti. Egli parlò di “delinquenti antropologici” per definire tutti quei soggetti colpevoli di atti criminali perché fisicamente e psicologicamente diversi dall'uomo “normale”, una sorta di propensione al crimine ereditata geneticamente. Lombroso arrivò al punto di quantificare interi gruppi etnici come criminali, e uno di questi gruppi di degenerati erano le persone con qualche forma di disabilità. Per citare un solo esempio, definì l'epilessia come un segno evidente di criminalità, in quanto (secondo le sue ricerche) ogni criminale soffre in qualche modo di epilessia. Per questi casi di degenerazione antropologica la cura non poteva non essere che drastica: carcere duro e pena di morte (15).
Con l'avvento del fascismo, l'eugenetica italiana arrivò al culmine della sua espressione.
Con il suo “discorso dell'ascensione” nel 1927, Mussolini affermò che lo Stato è il principale garante della salute pubblica e che il suo compito è quello di curare la razza dalle impurità e dalle imperfezioni. Durante il ventennio fascista, il controllo eugenetico si concretizzò in provvedimenti legislativi e drastici aumenti di pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici. I medici e gli psichiatri fascisti erano ossessionati dalla presunta diffusione di degenerazioni e infermità mentali, così che tra il 1926 il 1928 vennero internati più di cinquantamila malati mentali (16).
Analogamente in Germania i nazionalsocialisti tedeschi, negli anni trenta del XX secolo, adottarono i provvedimenti più radicali e violenti di sterilizzazione coatta. La tragica storia dell'olocausto nazista si apre proprio con l'eliminazione sistematica degli esseri umani più deboli e indifesi. Già all'inizio del cancellierato di Hitler, una legge del 1933 elencava i candidati alla sterilizzazione: persone con handicap fisici e mentali, soggetti affetti da malattie congenite, nonché da cecità ereditaria e sordità, e più tardi interi gruppi etnici considerati “biologicamente inferiori”. A questa legge due anni dopo seguirono le famose “leggi di Norimberga” (1935) che impedivano matrimoni e accoppiamenti tra persone “indesiderabili” (17).
Alla sterilizzazione coatta fece seguito l'eutanasia dei cosidetti esseri “inferiori”. Con il termine “eutanasia” si intendeva un vero e proprio assassinio di tutti quegli esseri umani che vivevano una “vita non degna di essere vissuta”; questo “tipo” di eutanasia può essere considerato il primo capitolo del genocidio nazista (18).
Per sensibilizzare la popolazione tedesca alla necessità dell'eutanasia, la propaganda nazista iniziò a denunciare gli alti costi che le cure destinate ai disabili comportavano per la collettività, giustificando così l'eliminazione di tutte quelle vite umane prive di valore che rappresentavano un peso per la società.
Nel 1938 ebbe inizio la soppressione legalizzata dei bambini affetti da insufficienza mentale e deformità fisiche; neonati, bambini e adolescenti colpevoli di essere nati con un handicap, affetti da malattie congenite, con qualche difficoltà di apprendimento o con problemi comportamentali, vennero uccisi in nome della “purezza razziale”.
Un anno dopo (1939) un decreto del Führer estese l'eutanasia anche agli adulti affetti da gravi disturbi mentali; venne elaborato un piano di sterminio dei malati mentali con l'obiettivo di eliminare “silenziosamente” il quaranta-sessanta per cento dei malati incurabili presenti nei manicomi.
In quegli anni venne istituito un “Ufficio eutanasia” noto come Aktion T4, dove T4 stava per Tiergartenstrasse 4, indirizzo del gruppo di lavoro del Reich per la “gestione delle case di cura” e nome in codice dell'operazione di eutanasia, che prevedeva la creazione dei primi centri di eliminazione (precursori dei campi di sterminio), dove i medici nazisti selezionarono milioni di disabili destinati alle camere a gas. Tra il 1939 e il 1947, solo in Germania, furono uccise 275.000 persone disabili (19).
La critica nei confronti delle istituzioni totali
Sull'onda dell'indignazione per le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale, dagli anni '60 in poi, si inasprisce la critica nei confronti delle istituzioni totali.
Nel 1961 Ervin Goffman, sociologo canadese allora ancora poco conosciuto, pubblica una raccolta di saggi sulla realtà istituzionale dei manicomi, dal titolo Asylums. Il lavoro di Goffman punta a far luce sulla presunta normalità attraverso lo specchio rappresentato da moribondi, malati mentali e criminali, “stranieri” che riflettono le parti più sconosciute dell'essere umano, che spesso si preferiscono ignorare (20).
Goffman ritiene che il paziente mentale porti su di se lo “stigma” di un'etichetta attribuitagli dalla società che lo discrimina e cerca di emarginarlo. Lo “stigma” può essere dovuto a deformazioni fisiche, aspetti caratteriali bizzarri e insoliti, o simboli negativi relativi all'etnia di appartenenza e alla religione. Avviene così che su di un individuo e su una sua caratteristica vista come negativa, si concentri l'attenzione collettiva, mettendo in moto un'azione di emarginazione nei suoi confronti, giustificata da un giudizio di pericolosità sociale attribuitogli (21).
Il primo saggio del testo Asylums, “Sulle caratteristiche delle istituzioni totali”, è un lavoro di indagine sulla vita sociale che si svolge all'interno di due organizzazioni limite, che comportano una partecipazione coatta di coloro che da esse dipendono: gli ospedali psichiatrici e le prigioni.
Il carattere totale di queste istituzioni è dipeso dall'impedimento “allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell'istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d'acqua, foreste o brughiere” (22).
Nel 1961, anno in cui Goffman pubblica la raccolta di saggi Asylums, Franco Basaglia, psichiatra e neurologo Italiano, assume la direzione dell'ospedale psichiatrico di Gorizia. Il lavoro rivoluzionario di Basaglia inizia proprio a Gorizia, esperienza che rappresenta il primo tentativo italiano di proporre una modalità alternativa a una realtà che egli rifiuta tenacemente: il manicomio. Con l'esperienza di Gorizia, Basaglia intendeva rompere le barriere fra ciò che succedeva all'interno del manicomio e il mondo all'esterno “producendo attraverso questa rottura una trasformazione del rapporto fra sano e malato, che metta contemporaneamente in discussione la definizione di salute e malattia come strumento di discriminazione, in un contesto sociale fondato sulla divisione di classe e del lavoro” (23)
Basaglia descrive il manicomio come una struttura ospedaliera costruita per difendere e tutelare il sano dalla follia, un mondo chiuso senza alcun tipo di rapporto con l'esterno; i manicomi venivano infatti costruiti alla periferia delle città affinché la loro presenza non turbasse l'equilibrio della popolazione sana.
Secondo Basaglia la scienza ufficiale si era occupata, fino a quel momento, di separare i malati dai sani, dando ai malati mentali l'etichetta di malati incomprensibili, pericolosi e imprevedibili, e lasciandogli come unica possibilità la morte civile. La nuova psichiatria avrebbe dovuto quindi cambiare approccio, non guardando più ai soli stati morbosi della patologia ma cercando di conoscere il mondo del “diverso”, la sua soggettività e come l'istituzionalizzazione ha influito sul suo stato di degenza.
Basaglia si fa promotore di una riforma che non si conclude all'interno dell'istituzione manicomiale ma allarga i suoi confini alla società nel suo complesso. Solo quando il problema del malato mentale viene affrontato dall'intera società, essa potrà allestire strutture terapeutiche incentrate sui bisogni di un soggetto libero e non di un oggetto messo sotto custodia.
Nel 1978 viene varata la legge n. 180, la cosiddetta legge Basaglia sugli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, tramite la quale vennero chiusi i manicomi e regolato l'istituto del ricovero coatto in psichiatria. Il varo di questa legge segna una svolta nella strada verso l'integrazione delle persone disabili, spesso assimilate ai malati mentali, riscuotendo ampi consensi in Italia e all'estero. Essa rappresenta a tutti gli effetti uno storico spartiacque tra un prima e un dopo nella psichiatria italiana.
Il lavoro di Basaglia segna così un particolare passaggio nel quadro dell'evoluzione delle cure pischiatriche degli ultimi decenni, dall'ideologia caritatevole che contrassegna tutto l'Ottocento, all'odierna esigenza di controllo di tutte le aree in cui si producono fenomeni di emarginazione.
Il modello sociale della disabilità e la classificazione ICF
Con gli anni Ottanta del XX secolo iniziano nuove lotte per la conquista dei diritti civili, che segnano una rappresentazione sociale della disabilità sempre più vicina alla diversità che alla menomazione.
Sono gli anni delle grandi riforme e delle ideologie di deistituzionalizzazione, in cui si moltiplicano gli attori che svolgono un ruolo fondamentale nel mondo e nella realtà del disabile. I servizi non appartengono più al solo mondo della beneficenza e delle Opere pie, ma entrano a far parte della programmazione e della pianificazione di una crescente sicurezza sociale. Si sviluppa così un rinnovato interesse nei confronti del cosiddetto terzo settore, interesse che si traduce in una crescita, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, del fenomeno dell'associazionismo e del volontariato.
L'elemento più innovativo di questa nuova concezione della disabilità è il Modello Sociale della Disabilità ideato nel 1981 da Mike Oliver, accademico britannico e attivista dei diritti delle persone disabili.
Oliver distingue il modello individuale della disabilità, comunemente condiviso dall'approccio medico e delle istituzioni, da quello sociale. Il modello individuale si basa su una concezione della disabilità intesa come “problema” da affrontare a livello individuale, concentrandosi così sui limiti e sulle perdite. Questo è ciò che Oliver chiama “il dramma individuale” della persona disabile, che suggerisce come la disabilità sia un evento terribile che occorre casualmente nella vita dell'individuo.
La nascita e lo sviluppo del modello sociale di Oliver si basa invece sul rifiuto di questi presupposti. Il modello certo non nega il “problema” della disabilità ma lo colloca all'interno della società: non sono le limitazioni individuali a generare il “problema” bensì il fallimento della società a provvedere con servizi appropriati ai bisogni e alle necessità delle persone disabili. La disabilità viene intesa quindi come uno stato sociale e non come una condizione medica (24).
Negli stessi anni in cui Oliver inizia a parlare di modello sociale della disabilità, l'OMS pubblica un nuovo documento dal titolo: International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (la Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap, ICIDIH), in grado di focalizzare l'attenzione, non solo sulla causa delle patologie, ma anche sulle conseguenze. L'ICIDIH rappresenta una tappa importante nello sviluppo dei sistemi di classificazione perché è il primo strumento, nell'ambito della disabilità, in grado di studiare l'impatto che lo stato di salute ha sulla persona.
Ma l'ICIDIH presentava anche numerosi limiti concettuali: non forniva informazioni sull'impatto che la malattia ha sulla persona come soggetto sociale; di conseguenza non era possibile inquadrare il funzionamento di quella persona e la sua condizione di salute dal punto di vista individuale e sociale. A causa del numero crescente di critiche, l'OMS promuove un processo di revisione dell'ICIDIH che porterà alla pubblicazione dell'ICIDIH-2 nel 1999, la base del modello concettuale sviluppato poi nell’ultima classificazione dell’OMS, l'International Classificaiton of Functioning, Disability and Health (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) nota con l'acronimo ICF.
L'ICF è uno strumento di classificazione innovativo, multidisciplinare e dall’approccio universale che prende in considerazione gli aspetti contestuali dell'individuo e permette la correlazione fra lo stato di salute e l'ambiente arrivando a definire la disabilità come una “condizione di salute in un ambiente sfavorevole”.
L'ICF non si occupa dell'eziologia ma si propone di descrivere le funzioni, le abilità e le capacità di una persona, oltre alle sue menomazioni e ai suoi deficit. Per la prima volta nella storia delle classificazioni diagnostiche viene adottata una prospettiva di tipo biopsicosociale della disabilità, che accanto alla diagnosi medica considera l'interazione delle caratteristiche dell'ambiente biologico, psicologico e sociale dell'individuo. Il contesto sociale costituisce, quindi, un elemento fondamentale di valutazione, in quanto influenza in modo diretto il funzionamento della persona.
In seguito a queste nuove definizioni “si passa da una visione causale a cascata, dove un problema di funzione o struttura (menomazione) determina disabilità, causando uno svantaggio (handicap), a una visione dinamica e complessa, dove una menomazione, interagendo con i fattori ambientali e personali, può causare un problema di capacità o di performance (limitazione dell'attività o restrizione della partecipazione), creando disabilità, oppure non avere alcuna influenza sul funzionamento” (25).
Il contesto italiano: la normativa di riferimento
In Italia i primi riferimenti normativi che riguardano la disabilità risalgono al 1917, quando lo Stato italiano attiva le prime forme di assistenza economica, sanitaria e di avviamento al lavoro a favore degli invalidi e dei mutilati di guerra, così che per la prima volta le persone disabili diventano titolari di diritti soggettivi. Pochi anni dopo, la riforma Gentile del 1923 introduce le prime norme sull'istruzione scolastica per i minori disabili, seguita nel 1928 dall'avvio delle classi differenziali e delle scuole speciali.
Nel 1948 viene promulgata la Costituzione della Repubblica, che sancisce i principi di uguaglianza e tutela dei soggetti deboli. L'art. 38 della Costituzione afferma che:
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano provveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato.
A partire dagli anni '80 si inizia a parlare di inserimento lavorativo a favore delle persone disabili, ciò costituisce una svolta radicale che assegna al disabile il ruolo, prima inimmaginabile, di individuo produttivo.
Con la legge n°482 del 1968, confermata nella legge n°104 del 1992, viene introdotta l'assunzione obbligatoria della persona disabile per le aziende oltre i 35 dipendenti, e un costante miglioramento delle tecnologie, definiti “ausili”, che contribuiscono ad aumentare la gamma dei possibili impieghi. Tali ausili comprendono in primo luogo strumenti informatici accessibili ai disabili sensoriali, ma anche ausili meccanici per la locomozione e la scrittura.
Per quanto riguarda l'integrazione scolastica, nel 1977 la legge n°517 garantisce tutti i bambini disabili l'accesso alle scuole pubbliche. Nel testo legislativo troviamo per la prima volta il termine “integrazione” anziché “inserimento”, indice di una mutata concezione dell'alunno disabile, che non viene più relegato in un istituto specializzato o in una scuola “a parte”, come previsto dalla precedente normativa con la legge n°12 del 1962, ma entra a far parte del “normale” ordinamento scolastico. Nasce in questi anni la figura dell'insegnante di sostegno, figura professionale qualificata che ha il compito di realizzare un progetto didattico personalizzato alle caratteristiche dell'alunno disabile.
Negli anni '90 si compie un ulteriore passo in avanti con l'approvazione della legge quadro sulla disabilità, la n. 104 del 1992, ancora oggi vigente. Grazie ad essa, la complessa tematica dell'handicap trova una sua collocazione sociale; viene promossa la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società, attraverso la prevenzione e la rimozione delle “condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali”.
Secondo la legge n. 104/1992 “è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale e di emarginazione”.
Tale definizione ha suscitato molte polemiche, perché si parla di minorazione e dei suoi effetti sull'individuo, senza considerare il comportamento del soggetto interessato e i servizi che la società offre per il superamento del suo deficit.
Le aspettative nei confronti di questa legge erano molte. Le persone colpite da qualche forma di handicap, le loro famiglie, e le organizzazioni ed associazioni che si occupavano di loro pensavano che finalmente si sarebbero risolti i problemi principali: la casa, la riabilitazione e l'inserimento scolastico. In realtà questo non accadde poiché la Legge quadro si rivelò ben presto carente soprattutto sul piano dei diritti, tanto che fu successivamente definita una “scatola vuota”.
Già dal titolo, Legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, emerge come sia prioritaria l'assistenza e non i diritti, in più non vengono sanciti nuovi diritti rispetto quelli già esistenti e quindi non è stato apportato nessun miglioramento. Le prestazioni inoltre riguardano tutte le persone con handicap indifferentemente, senza una distinzione tra handicap intellettivo (l'insufficienza mentale) e handicap psichico (la malattia mentale). Le persone con handicap intellettivo, assimilati ai malati di mente, furono infatti esclusi dal collocamento obbligatorio al lavoro, sancito con l'entrata in vigore della legge n°482 del 1968 (26).
Conclusioni
Ciò che emerge in maniera evidente dall’excursus storico che abbiamo proposto è la capacità dell’orientamento culturale dominante di determinare la vita delle persone, in particolare di quelle prive di contrattualità sociale. Tale constatazione impone tanto agli amministratori quanto ai singoli cittadini di monitorare i presupposti a partire dai quali prendono forma le relazioni ed i provvedimenti nei confronti delle persone con disabilità.
Il paradigma proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con l’ICF, che ha spostato la responsabilità della condizione disabile dalla persona in sé al suo contesto di vita, ci ripropone il tema dei diritti in chiave di opportunità e giustizia sociale per tutti i cittadini, anche per coloro che presentano una menomazione, secondo il miglior spirito della nostra Costituzione.
Note bibliografiche
- 1) Aristotele, 1990, Politica, VII, 16, 1336b, Laterza, Bari (IV sec. a.c.).
- 2) Platone, 2007, La Repubblica, III 409, 410, Armando, Roma (IV sec. a.c.).
- 3) Ibidem
- 4) Canevaro A., Goussot A., 2000, La difficile storia degli handicappati, Carocci, Roma.
- 5) Le Goff J., Il rifiuto del piacere, in G. Duby, 1994, L'amore e la sessualità, Dedalo, Bari, pp. 147-151 (ed. or. 1986).
- 6) Foucault M., 1998, Storia della follia nell'età classica, Rizzoli, Milano, p. 17 (ed. or. 1961).
- 7) Pesci G., Pesci S., 2005, Le radici della pedagogia speciale, Armando, Roma.
- 8) Winzer M. A., 1993, The History of special education: from isolation to integration, Gallaudet University Press, Washington.
- 9) Ferrucci F., 2004, La disabilità come relazione sociale, Rubbettino, Soveria Mannelli, p. 86.
- 10) Canevaro A., Gaudreau J., 1988, L'educazione degli handicappati: dai primi tentativi alla pedagogia moderna, NIS, Roma.
- 11) Lepri C., 2011, Viaggiatori inattesi. Appunti sull'integrazione sociale delle persone disabili, FrancoAngeli, Milano.
- 12) Spencer, H. 1851, Social statics, or, the conditions conductive to human happiness, and the first of them specified, Williams & Norgate, London.
- 13) La Vergata A., 2009, Colpa di Darwin? Razzismo, eugenetica, guerra e altri mali, Utet, Torino.
- 14) Brambilla G., 2009, Il mito dell'uomo perfetto. Le origini culturali della mentalità eugenetica, IF PRESS, Frosinone.
- 15) Ibidem
- 16) Padovan D., 2003, Bio-politica, razzismo e disciplinamento sociale durante il fascismo, (collegamento effettuato il 24/4/2012): http: //www.sissco.it/attività/sem-set-2003/relazioni/padovan.rtf
- 17) Ciceri M., 2009, Origini controllate: la prima eugenetica italiana, 1900-1924, Prospettiva, Civitavecchia.
- 18) Friedlander H., 1997, Le origini del genocidio nazista: dall'eutanasia alla soluzione finale, Editori Riuniti, Roma (ed. or. 1995).
- 19) Tarditi R., 2007, L'olocausto delle diversità, in Psichiatria/Informazione. Associazione per la lotta contro le malattie mental, 1/2007, n. 32, pp. 57-63.
- 20) D’Alessandro R., 2008, Lo specchio rimosso: individuo, società, follia da Goffman a Basaglia, Franco Angeli, Milano.
- 21) Goffman E., 2003, Stigma. L’identità negata, Ombre Corte, Verona (ed. or. 1963).
- 22) Goffman E., 2003, Asylums. Le istituzioni totali, Einaudi, Torino (ed. or. 1961).
- 23) Basaglia F., 1968, L’istituzione negata, Einaudi, Torino, pp. 27-29.
- 24) Oliver M., 1990, The individual and social model of disability, Joint Workshop of the Living Options Group and the Research of the Royal College of Physicians on People with established locomotor disabilities in hospitals (collegamento effettuato il 15/6/2012): http://www.leeds.ac.uk/disability-studies/archiveuk/Oliver/in%20soc%20dis.pdf
- 25) De Polo G., Pradal M., Bortolot S., 2011, ICF-CY nei servizi per la disabilità. Indicazioni per il metodo e prassi per l’inclusione, Franco Angeli, Milano, p. 41.
- 26) Breda M. G., Santanera F., 1995, Handicap: oltre la legge quadro. Riflessioni e proposte, Utet, Torino.
Autore: Mirko Cario, dottore in Psicologia dello Sviluppo e dell'Educazione. Collabora con i servizi sociali del comune di Torino in qualità di affidatario diurno, area minori e disabili, e con il Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie Csptech.
copyright © Educare.it - Anno XIV, N. 7, luglio 2014
DOI: 10.4440/201407/cario