Educare.it - Rivista open access sui temi dell'educazione - Anno XXIV, n. 9 - Settembre 2024

Breve storia della disabilità - Il modello sociale della disabilità e la classificazione ICF

Il modello sociale della disabilità e la classificazione ICF

Con gli anni Ottanta del XX secolo iniziano nuove lotte per la conquista dei diritti civili, che segnano una rappresentazione sociale della disabilità sempre più vicina alla diversità che alla menomazione.

Sono gli anni delle grandi riforme e delle ideologie di deistituzionalizzazione, in cui si moltiplicano gli attori che svolgono un ruolo fondamentale nel mondo e nella realtà del disabile. I servizi non appartengono più al solo mondo della beneficenza e delle Opere pie, ma entrano a far parte della programmazione e della pianificazione di una crescente sicurezza sociale. Si sviluppa così un rinnovato interesse nei confronti del cosiddetto terzo settore, interesse che si traduce in una crescita, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, del fenomeno dell'associazionismo e del volontariato.

L'elemento più innovativo di questa nuova concezione della disabilità è il Modello Sociale della Disabilità ideato nel 1981 da Mike Oliver, accademico britannico e attivista dei diritti delle persone disabili.

Oliver distingue il modello individuale della disabilità, comunemente condiviso dall'approccio medico e delle istituzioni, da quello sociale. Il modello individuale si basa su una concezione della disabilità intesa come “problema” da affrontare a livello individuale, concentrandosi così sui limiti e sulle perdite. Questo è ciò che Oliver chiama “il dramma individuale” della persona disabile, che suggerisce come la disabilità sia un evento terribile che occorre casualmente nella vita dell'individuo.

La nascita e lo sviluppo del modello sociale di Oliver si basa invece sul rifiuto di questi presupposti. Il modello certo non nega il “problema” della disabilità ma lo colloca all'interno della società: non sono le limitazioni individuali a generare il “problema” bensì il fallimento della società a provvedere con servizi appropriati ai bisogni e alle necessità delle persone disabili. La disabilità viene intesa quindi come uno stato sociale e non come una condizione medica (24).

Negli stessi anni in cui Oliver inizia a parlare di modello sociale della disabilità, l'OMS pubblica un nuovo documento dal titolo: International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (la Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap, ICIDIH), in grado di focalizzare l'attenzione, non solo sulla causa delle patologie, ma anche sulle conseguenze. L'ICIDIH rappresenta una tappa importante nello sviluppo dei sistemi di classificazione perché è il primo strumento, nell'ambito della disabilità, in grado di studiare l'impatto che lo stato di salute ha sulla persona.

Ma l'ICIDIH presentava anche numerosi limiti concettuali: non forniva informazioni sull'impatto che la malattia ha sulla persona come soggetto sociale; di conseguenza non era possibile inquadrare il funzionamento di quella persona e la sua condizione di salute dal punto di vista individuale e sociale. A causa del numero crescente di critiche, l'OMS promuove un processo di revisione dell'ICIDIH che porterà alla pubblicazione dell'ICIDIH-2 nel 1999, la base del modello concettuale sviluppato poi nell’ultima classificazione dell’OMS, l'International Classificaiton of Functioning, Disability and Health (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) nota con l'acronimo ICF.

L'ICF è uno strumento di classificazione innovativo, multidisciplinare e dall’approccio universale che prende in considerazione gli aspetti contestuali dell'individuo e permette la correlazione fra lo stato di salute e l'ambiente arrivando a definire la disabilità come una “condizione di salute in un ambiente sfavorevole”.

L'ICF non si occupa dell'eziologia ma si propone di descrivere le funzioni, le abilità e le capacità di una persona, oltre alle sue menomazioni e ai suoi deficit. Per la prima volta nella storia delle classificazioni diagnostiche viene adottata una prospettiva di tipo biopsicosociale della disabilità, che accanto alla diagnosi medica considera l'interazione delle caratteristiche dell'ambiente biologico, psicologico e sociale dell'individuo. Il contesto sociale costituisce, quindi, un elemento fondamentale di valutazione, in quanto influenza in modo diretto il funzionamento della persona.

In seguito a queste nuove definizioni “si passa da una visione causale a cascata, dove un problema di funzione o struttura (menomazione) determina disabilità, causando uno svantaggio (handicap), a una visione dinamica e complessa, dove una menomazione, interagendo con i fattori ambientali e personali, può causare un problema di capacità o di performance (limitazione dell'attività o restrizione della partecipazione), creando disabilità, oppure non avere alcuna influenza sul funzionamento” (25).