In Africa la costruzione di una prassi educativa autoctona è al centro del dibattito accademico e culturale. Se nel passato la trasmissione della cultura, e quindi la pratica educativa, è stata veicolata dalla tradizione orale, oggi si cerca di strutturare un sistema educativo che si fondi su un nuovo paradigma. In particolare nell’area sub-sahariana, pur nella diversità propria delle diverse nazioni, si punta ad un modello con basi comuni che si affranchi dalle influenze esterne ed assuma una dimensione originale. Non è operazione semplice, anche per il fatto che molti studiosi africani si sono formati in università estere o in istituti i cui programmi sono allineati a quelli europei o americani. Dal punto di vista operativo, sta prevalendo l’idea che l’utilizzo di strumenti e paradigmi estranei alla tradizione non comprometta l’identità africana, perché questi vengono “africanizzati” e diventano altro. In questo articolo si analizza tale processo di “africanizzazione” e le modalità con cui si cerca di rendere più accessibile e più giusta l’educazione nel continente. Nello specifico, si offre un’idea delle peculiarità del dibattito attuale, dell’orientamento e delle prospettive, nelle quali è centrale l’idea della filosofia africana di Ubuntu.
A partire da un’interpretazione antropologica del dono come base dei legami sociali, l’articolo affonda la riflessione nella relazione dell’agire educativo come riconoscimento reciproco e crescita dell’altro. Spontaneo e invisibile, sempre presente nell’incontro interpersonale, il dono offre una prospettiva particolare all’educazione che si propone di valorizzare la diversità umana in chiave inclusiva.
Introduzione
Da sempre il dono ha caratterizzato la socialità degli uomini, come incontro e riconoscimento della pluralità che abita lo stesso mondo. Quella pluralità che, secondo Hannah Arendt (1958), “è il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà” (p. 639).
Per tentare una definizione esaustiva del dono e del suo valore si deve ricorrere ad una molteplicità di prospettive: antropologica, filosofica, sociologica, etica e, non ultima, quella pedagogica che in questo articolo ci preme, in particolar modo, evidenziare, in quanto penetra la sfera dell’essere umano nella sua interazione sociale più profonda e nella sua crescita complessivamente unitaria.
Il “luogo” del dono è quella relazione di apertura che “riconosce l’altro nello stesso tempo come simile a sé e differente da sé: simile a sé per la sua umanità, differente da sé per la sua singolarità personale e/o culturale” (Morin, 2015, p. 50-51). Legati da un rapporto di somiglianza e di prossimità, partecipi di uno stesso destino umano: l’altro è il destino ultimo dell’io, il richiamo della sua massima responsabilità. Non è sufficiente riconoscere all’altro la sua identità in rapporto all’io o affermarne la comune origine o la sua correlatività. È necessario disporre sempre l’io e l’altro sullo stesso piano, come due realtà plurali che si richiamano a vicenda e costituiscono l’espressione privilegiata dell’umano nel mondo, dove il dono, diventa il terzo paradigma (Caillé, 1998)che legittima, in ogni azione, la connessione del tessuto sociale.
Mauss, nel suo intramontabile Saggio sul dono, individua tre caratteristiche (dare, ricevere e ricambiare) che configurano quell’intreccio circolare di relazioni innescate dal donare. Non si tratta solamente dello scambio di qualcosa, neppure se arricchito dei suoi significati simbolici: nello scambio-incontro sono coinvolti anche lo spirito di colui che dona e di colui che riceve, secondo un intreccio che finisce per riflettersi sulle comunità di appartenenza (Santone, 2016).
Caillé (1998) chiarisce che il dono, nella sua logica di interazione e di rete, costruisce e rinforza le relazioni sociali, rappresenta il legame fondamentale tra le persone, vincola gli individui in un processo di riconoscimento reciproco e di fiducia, che può essere allo stesso tempo obbligato e libero, interessato e disinteressato, che acquista valore per la coesione sociale e che ha valore indipendentemente da ogni discussione sugli aspetti utilitaristici e di realizzazione personale (Renna, 2016).
Il dono della diversità nell’educazione
Il riconoscimento della reciproca similarità e diversità, la responsabilità etica che ne scaturisce, invitano a guardare alla condizione umana come una dimensione plurale, da coltivare attraverso l’educazione. [... continua]
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Autore: Giovanni Savia, laureato in Pedagogia e Scienze filosofiche, dottore di Ricerca in Educazione - Attenzione alla diversità e inclusione educativa – presso Università Complutense di Madrid. Docente a contratto e Tutor coordinatore nei corsi di specializzazione sul sostegno dell'Università di Catania, insegna nella scuola secondaria.
L’articolo propone una riflessione sul significato attribuito all’educazione in ordine alla formazione dell'uomo. Analizzando modelli educativi opposti comparsi lungo la storia, si mostra come da sempre l’educazione sia stata utilizzata per trasmettere il sistema di valori dominante. La questione si apre sul presente, dove la liquidità dei legami e l’incertezza diffusa sembra alimentare una visione distopica del futuro. La tesi sostenuta è che sia possibile quanto necessario costruire una visione utopica dell’educazione a partire dai valori che oggi appaiono irrinunciabili.
In una visione romantica della famiglia il tema della giustizia sembrerebbe inapplicabile. Eppure basta riconoscere la diseguale distribuzione del lavoro domestico o la presenza diffusa di conflitti e violenze tra i membri per riconoscere come anche in ambito familiare vi siano fonti di ingiustizia. L’autrice affronta dal punto di vista filosofico il problema del rapporto tra la giustizia e la famiglia evidenziandone le sottese radici teoriche: dal rapporto tra la difesa della libertà del privato e le esigenze di uguaglianza del pubblico fino al nodo cruciale del riconoscimento della differenza che abita intimamente le relazioni familiari. Se la famiglia è il luogo genetico della differenza, le politiche nei suoi confronti diventano allora lo specchio in cui misurare la nostra capacità di tutelare e rispettare l'alterità: il nostro essere o non essere una democrazia.