- Categoria: Educazione prenatale e prima infanzia
- Scritto da Antonella Bastone
La lettura precoce condivisa: un nutrimento cognitivo, affettivo e relazionale
L’articolo esplora i benefici della lettura precoce da un punto di vista cognitivo, affettivo ed educativo, avvalendosi di recenti contributi delle neuroscienze. Inoltre, offre alcuni suggerimenti pratici per stimolare nei bambini la lettura precoce attraverso la relazione con gli adulti di riferimento.
Introduzione
La narrazione può essere definita come il processo attraverso cui strutturiamo l’esperienza in unità temporalmente significative, attribuendo loro ordine e relazioni (Batini, Fontana, 2010). L’essere umano (Gottschall, 2018) utilizza la narrazione per rappresentarsi interiormente la realtà percepita, per comprenderla attraverso connessioni crono-causali e per condividere con altri interlocutori la propria interpretazione dei fatti e i relativi vissuti interiori. Il pensiero narrativo è una forma di organizzazione psichica universale, disponibile a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla cultura di appartenenza, che consente di sistematizzare e interpretare le informazioni relative ai fatti e all’agire umano, rendendoli interpretabili e, quindi, dotati di senso (Levorato M.C, 2003). Non solo: l’esposizione precoce alla narrazione, sotto forma di storie ascoltate, la familiarizzazione con la struttura narrativa e la capacità di padroneggiarne le tecniche stimola importanti sviluppi a livello cognitivo, emotivo e relazionale.
La narrazione come esplorazione della realtà
Per Bruner (2005), tutti gli esseri umani possiedono due modalità di pensare, ognuno dei quali fornisce un metodo particolare di ordinamento dell’esperienza e costruzione della realtà: da un lato il pensiero scientifico, che si esplica attraverso le argomentazioni logiche, ricorre a categorizzazioni e concettualizzazioni, si serve di procedure atte ad assicurare la verificabilità empirica. Dall’altro, il pensiero narrativo, che si esplica attraverso il racconto. Esso ha la capacità di stimolare l’immaginazione di chi ne fruisce e possiede tre caratteristiche: creare significati impliciti oltre che espliciti, che favoriscono il grado di libertà interpretativa dell’autore, proponendo una rappresentazione soggettiva, ossia filtrata dalla coscienza dei personaggi, e creando una pluralità di prospettive.
Bruner parla a questo proposito di opacità referenziale: la narrazione non è una descrizione obiettiva dei fatti, ma una rappresentazione soggettiva dell’evento. Ciò che acquista importanza è il significato che viene attribuito a quella realtà da parte del soggetto; nelle storie non si ha a che fare con solide certezze, ma con l’infinita ricchezza delle possibilità umane. Il cosiddetto storytelling – ossia l’attività del narrare - è parte dell’esistenza stessa: noi pensiamo il mondo in forma narrativa e apprendiamo a farlo da bambini.
A partire dall’infanzia, la nostra mente tende a correlare gli eventi sulla base di connessioni crono-causali di episodi: quando osserviamo, ascoltiamo o raccontiamo qualcosa classifichiamo la trama episodica sulla base di un confronto con un modello stereotipico derivato da esperienze simili registrate in memoria. Ogni nuova esperienza viene valutata sulla base di schemi pregressi: frames (cornici concettuali rappresentanti gli oggetti statici o le relazioni che costituiscono l’evento) e scripts (rappresentano le micro-sceneggiature dell’evento, ossia gli aspetti dinamici con cui evolve la sequenza degli eventi). La stessa memoria autobiografica vive di frames e scripts che ci consentono di capire che cos’è l’evento che sto vivendo e articolarlo in una sequenza ordinata (Calabrese, 2013).
Pertanto, le narrazioni costituiscono una sorta di allenamento cognitivo per interpretare il mondo secondo aspettative comuni o per rielaborarle a fronte di cambiamenti: fiabe, romanzi e narrazioni di fantasia più in generale si sono rivelati preziose palestre mentali per l’addestramento delle giovani generazioni all’interpretazione degli eventi.
Sul piano neurocognitivo, la fantasia rappresenta l’esercizio della corteccia prefrontale e l’applicazione del pensiero ipotetico-deduttivo a oggetti, eventi, schemi d’azione della vita quotidiana. La funzione del pensiero ipotetico è di immaginare rappresentazioni alternative a quanto già avvenuto, simulare ipoteticamente gli eventi futuri servendosi della banca dati memorizzata nel nostro cervello a partire dalle esperienze precedenti (Calabrese, 2013).
Il racconto di fantasia, proprio come il gioco simbolico a cui i bambini sono naturalmente inclini nella prima infanzia, non rappresenta banalmente una forma di evasione dalla realtà, ma un vero e proprio esercizio di problem solving funzionale, fondamentale per lo sviluppo integrale del bambino. Esiste una sorta di grammatica universale del racconto di fantasia, costituito da un personaggio protagonista che affronta, con diverse strategie, una situazione difficile iniziale.
La fiaba, quale trama arcaica e originaria del racconto di fantasia, rappresenta l’esempio per eccellenza di questo modello di problem solving, di cui la ben nota analisi morfologica di Propp (2000) ha individuato gli elementi di ricorrenza (le cosiddette funzioni): il problema iniziale che caratterizza l’avvio della narrazione fiabesca, i tentativi di superamento del problema attraverso l’adozione di strategie, l’uso di strumenti e doni fatati, l’incontro con aiutanti magici, le complicazioni messe in atto da personaggi nemici e in conclusione il fatidico lieto fine. Il racconto di fantasia fornisce così un archivio mentale di situazioni complesse unitamente a una serie di soluzioni operative, seppur immaginarie.
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Autrice: Antonella Bastone, pedagogista, docente a contratto presso l’Università di Torino, l’Università del Piemonte Orientale e l’Università di Genova.
copyright © Educare.it - Anno XXI, N. 10, Ottobre 2021