- Categoria: Scuola e dintorni
- Scritto da Laura Pedrinazzi
Una scuola per tutti: l'esperienza di Mario Lodi e la classe universale di oggi
Un pensiero costante nella vita di tutti i docenti è senz’altro quello di arrivare con la propria didattica ad aiutare la migliore espressione di sé di ogni alunna e alunno. A volte ci si chiede se sia davvero possibile farsi differenziali di sviluppo, cioè “aiutare gli alunni ad apprendere con un nuovo contratto educativo dove, in autonomia e con l’aiuto del docente, riescano a risolvere il compito di apprendimento in una condizione in cui non si sentano soli, ma insieme ai compagni e con il supporto dell’insegnante" (D. Lucangeli, 2020).
È possibile, ma per tener fede a questo proposito non si può pensare ad una meta raggiungibile attraverso un unico percorso. È necessario immaginare più vie, da poter percorrere utilizzando, metaforicamente parlando, diversi mezzi di trasporto. La differenziazione di un compito affinché si possa giungere alla reale inclusione di tutte e tutti gli alunni è una pratica che dovrebbe essere ormai consolidata nel lavoro progettuale di ogni insegnante. Con la Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” è stato introdotto nel linguaggio scolastico l’acronimo BES. L’obiettivo di questa direttiva è quello di favorire la costruzione, in ogni classe, di un approccio didattico diverso caso per caso, pensato sulla base della situazione specifica di ogni alunno e volto a favorirne l’inclusione scolastica. Il MIUR chiarisce come, nel grande contenitore dei Bisogni Educativi Speciali, vi siano tre sottocategorie: quella della disabilità; quella dei disturbi evolutivi specifici e quella dello svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale.
Oggi, a più di 10 anni dall’uscita della direttiva, si comincia a parlare sempre di più di “universalità”, termine che sta prendendo il posto di “inclusione”. Lavorare prendendo in considerazione l’unicità di ogni alunna e alunno può portare a modificare, anche nei documenti progettuali e di indirizzo, il termine didattica inclusiva a favore del termine didattica universale. “Con il termine universale si intende la didattica capace di pianificare e dirigere la propria azione educativa nel rispetto di tutte le variabili personali che compongono la classe e la comunità scolastica. È la didattica di base, generale e disciplinare, che si rivolge al 100% degli alunni e delle alunne e si costruisce a partire dalle differenze presenti in classe” (Zambotti e Franch, 2022).
Si supera in questo modo l’idea che l’inclusione sia una pratica dedicata solo al sostegno, al recupero e al rinforzo di alcuni alunni in difficoltà, connotata da un’accezione caritatevole particolarmente fastidiosa. Molti bambini con difficoltà di apprendimento colpiscono per la loro eccezionalità, che si esplicita in debolezze significative, ma anche in sorprendenti competenze (Cornoldi e Zaccaria, 2014). Nondimeno, bambini particolarmente brillanti negli apprendimenti presentano spesso disarmonie nel rapporto tra la sfera cognitiva, altamente sviluppata, e quella emotiva, più fragile. Anche solo da questi semplici esempi ci si rende conto di quanto sia ormai necessario superare il concetto di “eccezione” quando ci si pone dinnanzi ad un lavoro di differenziazione, ma è necessario pensare ad un lavoro sistematico di riconoscimento delle peculiarità individuali di ciascun alunno presente in classe.
L’approccio universale è quello che pone al centro lo studente, come soggetto che apprende in modo originale e costante. Progettare in modo universale non significa semplificare, ma porsi traguardi ampi e complessi, che possano essere raggiunti a livelli e in modi diversi. La classe universale, quindi, può essere considerata come una bottega artigiana del sapere in cui si smontano e si rimontano “artefatti culturali” e che ha “la funzione di fare opera di design culturale” (Cope e Kalantzis, 2006).
Gli antecedenti pedagogici: l'attivismo e Mario Lodi
Si può verosimilmente affermare che il seme della visione universale, intesa come valorizzazione di ogni individualità e costruzione personale del sapere, affondi le proprie radici nella pedagogia del Novecento; in particolar modo si possono trovare diverse caratteristiche in comune con l’attivismo pedagogico, corrente che pone il bambino al centro del processo di apprendimento, lo considera soggetto attivo, riconoscendolo primo e principale fattore della propria educazione e sottolinea come esso sia portatore di conoscenze pregresse che vengono modellate, ampliate, integrate all'interno del contesto socioculturale in cui agisce. Certo, il contesto sociale e culturale attuale è molto diverso rispetto a quello di inizio secolo scorso, ma in entrambi i modelli si fa riferimento ad un docente osservatore, alleato e co-costruttore della capacità di apprendere dello studente. Anche la strutturazione di spazi e materiali è certamente cambiata, oggi infatti non si possono non tenere in considerazione le enormi possibilità legate agli ambienti digitali, che però si coniugano con una consapevolezza sempre maggiore dell’importanza del contatto con il Mondo, inteso come naturale e culturale, vicino allo studente.
In Mario Lodi, maestro, scrittore e pedagogista al quale la scuola italiana deve moltissimo, questa continua ricerca di connessione con i propri alunni e desiderio di fornire loro la miglior preparazione possibile, è già presente nei primi scritti, raccolti nel libro C’è speranza se questo accade al Vho (M. Lodi, 1963). Il Maestro è stato anche un protagonista in prima linea nello sforzo di migliorare la scuola, certo del fatto che non ci potesse essere reale cambiamento senza la formazione di una generazione di docenti che sapessero rendere l’insegnamento sempre più efficace. Il maestro Mario Lodi è una figura di così incredibile spessore nella storia della pedagogia italiana che non necessita di lunghe introduzioni. Nato a Piadena (Cr) nel 1922, iniziò la sua lunga carriera lavorativa durante i primi, difficilissimi, anni del secondo dopoguerra. Nel 1951 scrisse della difficoltà di insegnare in una scuola ancora profondamente autoritaria e percepita come immodificabile (C. I. Salviati, 2011). Dopo alcuni momenti di scoramento e riflessione intuì che l’unica possibilità di fare realmente la differenza fosse quella di cambiare completamente la didattica. Tale illuminazione non fu fortuita, ma frutto di un’osservazione sistematica della vita degli studenti fuori e dentro l’aula; negli appunti del 5 novembre 1951 si legge “Osservare i ragazzi mentre giocano sulla strada o nel cortile mentre ignorano la mia presenza è qualcosa di sconcertante: c’è in loro un'aggressività ricca di fantasia, un comportamento libero, un linguaggio scarno ma incisivo e una felicità motoria. Spuntano nodi drammatici in continuazione sulla linea vitale di quella società socialità naturale fondata sul rapporto del gioco, ma vengono sciolti sulla base di sacri e taciti patti; sono suppergiù gli stessi patti che anch'io rispettavo un tempo e la stessa felicità dell'ormai lontana fanciullezza. È il bambino eterno libero vero ricco di vitalità e di fantasia che esprime se stesso.” (M. Lodi, 1963).
Da questa osservazione attenta nacque in lui l’impossibilità di imporre un compito agli studenti e la necessità di trovare altre vie. Il maestro, a disagio nelle anguste aule dell’epoca, che nel libro Il paese sbagliato descrisse come “scatole di mattoni. C’è una terribile somiglianza tra le celle di una vecchia prigione e le aule delle scuole” (M.Lodi, 1970), decise così di trasformare gli spazi, che divennero, di volta in volta, laboratori, atelier creativi, redazioni. Ciascun alunno fu chiamato a condividere la propria idea, prendere decisioni, discutere con i compagni e così autodeterminarsi. Tra i più grandi esponenti dell’attivismo pedagogico italiano, il maestro Lodi fu in grado di personalizzare il proprio insegnamento e fare della scuola un percorso di vita non estraneo alla vita stessa. Sostenne sempre che “non è tanto importante come si è, quanto come si riesce ad assomigliare a come si vuole essere quando si insegna”. Bisogna quindi partire dalla conoscenza, dallo studio, dall’aggiornamento e dalla formazione. Mario Lodi rivendicò sempre la non unicità della propria esperienza, la sua riproducibilità e il fatto che potesse essere realizzata anche in quartieri difficili delle grandi città e non solo in campagna, a patto di mettere radicalmente in discussione il proprio modo di fare scuola (V. Roghi, 2022).
Come l’insegnamento di Mario Lodi si può coniugare alla didattica di oggi
Il Maestro pensava ad una scuola di tutti in ottica di educazione e didattica democratica; oggi la democrazia, intesa come reale opportunità educativa per tutte e tutti, può veramente compiersi solo in una classe universale che sappia, come si diceva nel primo paragrafo, superare il concetto di inclusione per arrivare a quello di reale presa in carico delle difficoltà e potenzialità di tutti gli studenti. Per raggiungere questo ambizioso obiettivo ci si può posare “sulle spalle di un gigante”, il visionario maestro Lodi. Nella pratica didattica quotidiana è difficile tenere in considerazione le numerose variabili che concorrono all’universalità della nostra azione sugli studenti, ma il compito può essere facilitato se si tengono in considerazione tre parole chiave della lezione del Maestro.
Osservare: predisporre una progettazione è compito necessario e doveroso di ciascun docente, ma è anche importante portare avanti quanto programmato osservando la ricaduta delle diverse attività sugli studenti, così da poter modificare o aggiustare una rotta che potrebbe rivelarsi inadatta al raggiungimento della meta prefissata. L’osservazione è una pratica che necessita di rigore e sistematicità per arrivare a fornire informazioni reali. Per tenere traccia nel tempo di quanto osservato è possibile tenere un diario di bordo con una sezione dedicata a ciascun alunno, completa di griglie di osservazione e spazi per le annotazioni, e predisporre un calendario da seguire per non dover osservare tutti gli alunni nello stesso momento, ma dedicare a ciascuno il giusto tempo. Ridurre il numero di studenti da osservare durante una giornata, rende la pratica più fattibile. In questo modo si ha la possibilità di dare continuità all’azione, e proprio da questa continuità si potranno poi trarre informazioni migliori.
Predisporre: Mario Lodi capì molto presto che per avvicinarsi ai suoi studenti doveva fisicamente modificare anche lo spazio dell’aula; diventò velocemente un maestro senza cattedra. Lo spazio fisico condiziona l'apprendimento e ha una grande importanza nel processo di sviluppo fisico, intellettuale, emotivo e sociale dei bambini. Uno spazio flessibile, che possa essere modificato e adattato alle diverse attività, rende l’azione didattica più incisiva. Spesso le scuole hanno aule grigie e vecchie, ma bastano pochi accorgimenti per rendere più accattivanti anche spazi vetusti. Può essere utile, per esempio, eliminare lo spazio della cattedra e creare negli angoli dell’aula delle “stazioni”, cioè grandi scrivanie che possano essere di supporto ai materiali delle diverse discipline (stazione delle lettere, dei numeri, della scienza…); il cuore dell’aula rimarrebbe così più libero e con possibilità di modulare i banchi secondo schemi diversi (a isole, a coppie, singoli).
Valorizzare: l’arte, la discussione e il confronto, la scrittura creativa erano per Mario Lodi vita e scuola, non orpelli o appendici di altro, di qualcosa di più serio e importante. I bambini apprendono utilizzando diverse intelligenze e abilità, che possono essere sviluppate se esercitate e messe nella condizione di interagire tra loro. Se tutti gli esseri umani avessero la stessa mente ed esistesse un solo tipo di intelligenza si potrebbero insegnare le stesse cose allo stesso modo, ma poiché esistono diversi stili cognitivi e di apprendimento, il modo di insegnare che considera tutti allo stesso modo si rivela ingiusto e insufficiente, perché predilige l’intelligenza logico-matematica e linguistica. Sono queste abilità che a scuola vengono maggiormente esercitate e misurate, le cosiddette intelligenze scolastiche. Offrire ai bambini percorsi ampi, complessi e creativi, all’interno dei quali ognuno possa realmente coltivare le proprie peculiari capacità e sentirsi efficace è una priorità. Le scuole stanno progressivamente perdendo una fetta sempre maggiore di studenti, che hanno, negli anni, sperimentato frustrazione, incomprensione, mancata valorizzazione dei talenti. Le soft skills, le arti, le competenze sportive e musicali sono tessere uniche ed inimitabili del puzzle che compongono la crescita e il benessere di ogni individuo e non possono più essere relegate a progetti di contorno, ma devono essere inserite nel percorso didattico di ciascuno, affinché tutti possano sperimentarsi e comprendersi meglio.
copyright © Educare.it - Anno XXIII, N. 11, Novembre 2023