Educare.it - Rivista open access sui temi dell'educazione - Anno XXIV, n. 5 - Maggio 2024

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Identità personale e identità sociale

Per poter avere un rapporto da essere umano a essere umano, sosteneva lo psichiatra Ronald Laing, è necessario possedere un senso solido della propria autonomia e della propria identità; se non è così, ogni rapporto minaccia l’individuo di perdita dell’identità.

Tuttavia la risposta alla domanda «Chi sono io?» si costruisce e si modifica all’interno della cornice relazionale della persona, cornice che può essere più o meno ampia estendendosi dall’ambito familiare a quello più propriamente sociale (appartenenza ad una comunità locale, ad un gruppo di lavoro, religioso, politico, sportivo, e così via). L´identità sociale è la risultante di tutte queste relazioni di inclusione o di esclusione in rapporto a tutti i gruppi costitutivi di una società.

Identità personale e identità sociale interagiscono tra loro: possiamo immaginarci il nostro sé come una struttura, una rappresentazione mentale in cui le informazioni individuali concorrono alla formazione del «cuore» della rappresentazione, ipotizza Stefano Boca, ordinario di Psicologia sociale all’Università di Palermo, mentre le informazioni di carattere sociale e culturale ne costituiscono gli aspetti via via più esterni. Ma esiste anche una rappresentazione di noi stessi che proponiamo o meglio,“recitiamo” agli altri, come una rappresentazione teatrale. Tale concetto fu proposto originariamente dal sociologo canadese Erving Goffman in “La vita quotidiana come rappresentazione” (The Presentation of Self in Everyday Life) del 1959: per Goffman, la società non è una creatura omogenea, ma un insieme di palcoscenici in cui rappresentiamo noi stessi in modo diverso.

«Sto adoperando la parola rappresentazione - chiarisce Goffman - per indicare tutta quell’attività di un individuo che si svolge durante il periodo caratterizzato dalla sua continua presenza dinanzi ad un particolare gruppo di osservatori e tale da avere una certa influenza su di essi». Ed è bene sottolineare che si parla di rappresentazioni «in buona fede», in cui l’attore implicitamente chiede al pubblico di credere al personaggio che interpreta, di prendere per veritiera la parte rappresentata, incoraggiando l’impressione che quella sia l’unica o per lo meno la più importante. Scopo principale dell’attore è il mantenimento della coerenza espressiva, attraverso un’unica definizione della situazione che deve essere difesa di fronte ad una miriade di possibili imprevisti.

L’identità sociale è conosciuta dal soggetto che generalmente accetta e partecipa attivamente a questa definizione. Ma cosa succede se il soggetto si ritrova condannato ad una identità ed una definizione di sé che vorrebbe ripudiare senza riuscire a farlo? Il problema è sentito particolarmente da coloro che sperimentano una notevole mobilità sociale verso l’alto o verso il basso (più frequente in questo periodo congiunturale caratterizzato da difficoltà a mantenere una identità lavorativa, con lavoratori che si barcamenano a fatica tra più attività, passando dal lavoro fisso al precariato o precipitando dal precariato più o meno stabile alla disoccupazione, alla povertà o alla miseria conclamata).

Difficilmente il «pubblico» si adeguerà immediatamente ad un repentino cambiamento di ruolo. A colui che sale la scala sociale si potrà, in qualsiasi momento, ricordare qualche elemento doloroso del suo passato, come un marchio che resta incollato addosso per sempre; chi invece scende la scala sociale dovrà fare i conti le proprie emozioni di perdita, ed anche con le rappresentazioni mentali di coloro che lo hanno conosciuto in tempi migliori e che adesso possono vederlo come la vittima di una situazione senza via d’uscita. Per riuscire a risalire, in ambienti particolarmente chiusi e refrattari a qualsiasi cambiamento, alcuni cercano di risolvere il problema in modo drastico, allontanandosi dal luogo in cui vivono. Ma non è un percorso facile né indolore.

Seguiamo la storia di Antonella, donna single di cinquantacinque anni, in procinto di trasferirsi da una grande città ad una piccola cittadina di provincia, dalla quale si era allontanata da ragazza in cerca di fortuna. Antonella è una ex modella, ha avuto da giovane un periodo di notorietà, a cinquantacinque anni conserva ancora una bella figura slanciata, un portamento elegante e attira molti sguardi maschili. Ma la sua unica compagnia è un grosso e malandato cane randagio che ha adottato da quando ha rotto la relazione con il compagno con cui viveva. La donna, che aveva investito i proventi dell’attività di modella nell’acquisto di due appartamenti in città, adesso, rimasta sola, ha venduto un appartamento per ristrutturare una piccola casa ereditata dai genitori nella cittadina di provincia, deve pagare mensilmente ancora per qualche anno la rata di un prestito con la banca e sta cercando disperatamente di affittare l’altro appartamento dove abita. Non è facile, in un periodo di crisi. Tutti gli amici di un tempo le hanno voltato le spalle. Anche l’ex compagno si rifiuta di aiutarla. Non ha parenti disposti a darle una mano per sopravvivere in attesa di tempi migliori. Non riesce a trovare lavoro neppure come venditrice porta a porta di un campionario di moda femminile.

Eppure deve mangiare e dare da mangiare al cane. Vicino alla sua casa c’è un grande supermercato. La sera, alla chiusura, qualcuno rovista tra i generi alimentari con la data di utilizzo appena scaduta che gli addetti del supermercato sistemano in grossi bidoni. Antonella prova anche lei a prendere qualcosa. Non si vergogna più di tanto, è convinta di tirarsi fuori da quella situazione non appena riuscirà ad affittare la casa e a pagare il trasloco dei pochi mobili rimasti (ne ha venduto la maggior parte ad un mercatino dell’usato). A mano a mano si raccoglie vicino a lei un gruppetto di persone bisognose - Antonella regala quello che non le serve - riesce a sfamare, oltre lei, altre cinque famiglie. Prende anche delle medicine non scadute per il cane da alcuni sacchetti abbandonati vicino ad contenitore per i medicinali scaduti all’esterno di una farmacia. Trova anche qualche crema per il viso e per le mani, disinfettanti per la casa. È tutto in buono stato. Diventata povera, Antonella si stupisce continuamente dello spreco della gente benestante alla quale prima apparteneva.

Non c’è da vergognarsi ad arrangiarsi quando tutti sono poveri o impoveriti. Ma, ad un certo punto, quando Antonella ha ormai affittato la casa e sta per trasferirsi in provincia, per ricominciare una nuova vita, certo non più da benestante ma non da miserabile, qualcuno mette in giro nel quartiere la voce che lei ha rovistato nell’immondizia. Forse la voce parte dallo stesso gruppetto di persone che lei ha aiutato a sopravvivere. Persone che continueranno a vivere ai margini e non tollerano che invece lei ne sia uscita fuori. Che non le perdonano di non essere come loro. Che vogliono instillarle un indelebile sentimento di vergogna. «Ma si può uscire dalla vergogna come si esce da una tana, la vergogna non è irrimediabile - sostiene nei suoi interventi pubblici lo psichiatra francese Boris Cyrulnik, esperto di fama internazionale sui processi di “resilienza” - si può passare dall’onta alla fierezza quando la nostra storia evolve o per il modo in cui stiamo nel nostro gruppo culturale di riferimento».

Ecco perché oggi, più che mai, è necessario gettare le basi per un sistema sociale più aperto che consenta all’individuo di modificare l’immagine che ha di se stesso, sia di fronte a sé, sia di fronte agli altri.

LaStampa.it, 10/08/2012