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Educare in una società liquida

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liquidaHo assistito per anni a varie disquisizioni sul “essere” educatore, sul “sapere” dell’educatore, su come “agire” da educatore.  Ho letto molte idee interessanti, altre ancora da sviluppare.  Oggi si fatica a trovare dei punti  fermi.  La politica e l’economia non offrono certezze e piani a lungo termine.

Ve lo confesso che  educare in una società liquida non è facile. Un ruolo quello dell’educatore non semplice, soprattutto quando ci viene richiesto, per caratteristiche intrinseche, di essere sempre  innovativi  in un contesto che si modifica continuamente.

Quindi, oggi, essere un mediatore di relazioni, un collaboratore di progetti educativi scolastici e/o in strutture  richiede apertura mentale e flessibilità lavorativa diversa dal decennio precedente. Il ruolo dell’educatore non è mai passivo, vivendo tensioni e preoccupazioni continue. Mi hanno sempre insegnato che l’educatore non ha orari, anche se il contributo o il riconoscimento economico  è sempre meno gratificante e ultimamente, come figura, viene sostituito da altre figure certamente dai costi più “modesti”, svalutando nei fatti i lati emergenti delle persone assistite. Si parla spesso del valore dell’educazione, ma la politica ne riconosce i meriti solo a parole. I servizi locali faticano a gestire il denaro dirottandolo soprattutto sulle emergenze, sperando di accontentare più famiglie possibili. Leggo di vari assessori ai servizi sociali che lamentano le ristrettezze di fondi e l’incertezza del futuro. Come si può pianificare e progettare con equipe multidisciplinari, quando si naviga a vista? Come costruire il futuro di ragazzi disabili all’interno della scuola, quando regna di anno in anno un velo di incertezza?

Essere un promotore di idee e potenziali soluzioni, confrontandosi con una realtà che soffia contro, rende difficile e pesante questo lavoro, con pesanti ricadute sulle persone per cui svolgiamo servizi. Ogni caso affidato rimane unico e importante. Più volte ci vengono richiesti extra, perché non possiamo per indole lasciare soli nessuno.  Siamo in relazione con persone ferite, deluse, sconfitte, che avvertono questa vita come un peso e a volte faticano a trovare vie di uscita. Non fabbrichiamo porte, ne lavoriamo con i numeri. Non possiamo, scaduta l’ora timbrare il cartellino e fuggire via. Siamo “costruttori di ponti” capaci di creare spiragli nelle relazioni complesse.  A cosa serve essere formati  in questa pratica professionale, o superare gli esami col massimo dei voti, o affrontare quesiti cruciali e avere un cronometro invece del cuore nel petto? Ricostruire legami spezzati o vite disordinate, occupandosi ogni tanto di queste persone solo perché da contratto o da mansionario ci viene richiesto, significa svolgere in modo artificiale questa opera. Credo serva per noi tutti un messaggio di profonda riflessività pedagogica, ricercando nuove strade, nuovi modelli operativi e ulteriori motivazioni per poter offrire risposte adeguate alle persone in qualsiasi situazione.

Sento colleghi e colleghe che faticano a trovare spazi e  il tempo per queste persone in difficoltà. Vivono pesantemente uno stile contenitivo o da “badanti” attendendo tempi migliori. Spero di creare nei lettori qualche provocazione e magari una riflessione.

Luca Tentoni

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