- Categoria: Risonanze
- Scritto da Chiara Sambugaro
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Unghie rosse in ospedale
Di mestiere faccio l’educatore in ospedale. Ogni giorno entro in reparto per salutare i pazienti e mi rendo disponibile ad accogliere eventuali richieste o espressione di bisogni. Vedevo quella signora di 83 anni nel reparto di riabilitazione respiratoria da parecchio tempo e condividevo con lei l’obiettivo di cercare condizioni possibili per una migliore “Qualità di Vita” nonostante la malattia. Ci vedevamo quasi tutti i giorni e nell’ultimo periodo le cure mediche e le condizioni di salute non permettevano più alcun miglioramento. L'assistenza infermieristica era mantenuta sempre con molta attenzione ma era come si fosse giunti ad un punto in cui era venuto a mancare qualcosa di importante. Da un po’ di giorni sembrava che nulla potesse condurre ad un qualsiasi cambiamento.
La lettura labiale concedeva sempre un buono scambio comunicativo ed una comprensione reciproca però, quel giorno in particolare, sembrava che lei stesse cercando di comunicare dell’altro anche con lo sguardo, forse per chiedere cose troppo grandi che non riuscivo a comprendere.
Era estate e la signora aveva il lenzuolo leggermente spostato dalle gambe per avere un po’ di refrigerio. Riuscivo a vedere le sue gambe. Era la prima volta che la vedevo scoperta. Ho potuto così notare che portava lo smalto sulle unghie dei piedi e ho pensato che era un splendido vezzo per una signora ammalata e della sua età. Mi faceva pensare ad una femminilità antica, ora maltrattata dalla malattia. Lo smalto, peraltro di un bel rosso intenso, era sciupato, scheggiato, in disordine; probabilmente non veniva ritoccato da molto tempo. In ospedale, ovviamente, non ci si poteva fermare su quello: c’erano altre “cose” più importanti e urgenti da curare!
Anche quel giorno gli infermieri erano entrati nella sua stanza e con una cannula la stavano tracheoaspirando per liberarla dal catarro che la disturbava. La signora accettava con pazienza e sopportava. Intanto, mentre aspettavo di poter restare sola con lei, miei pensieri hanno iniziato a muoversi liberi… Può succedere, talvolta ti arrivano alla mente immagini, veloci, leggere. Non sai da dove vengano. Ti accompagnano per un po', ti portano sensazioni che sembrano fuori luogo e poi ti lasciano.
In quel momento avevo in mente l’immagine di una balenottera azzurra che aveva tanto nuotato in mare aperto con forza ed in una libertà senza confini. Ora però aveva bisogno di aiuto perché si era fermata. Il suo corpo era ancora vivo ma lei era come “spiaggiata”. Sembrava chiedesse di poter tornare a nuotare almeno una volta libera nel suo mare.
No, non mi stavo perdendo, ero presente. Stavo osservando gli infermieri che la stavano disostruendo con attenzione e disponibilità per permetterle di stare meglio. Le balene simboleggiano libertà, bellezza della natura e forza creatrice della vita. Sono animali stupendi nella loro leggerezza e potenza. I loro canti d’amore, così simili al canto umano, sono una meraviglia con i loro salti, acrobazie e tuffi corteggiano, segnalano qualcosa, si sbarazzano dei parassiti, dimostrano forza, sfidano oppure semplicemente si divertono e giocano. Chissà cosa provano le balene quando nuotano libere…
La signora invece dipendeva da macchinari e da cure gestite da altri. Chissà come viveva questa dipendenza? E chissà come viveva e cosa provava prima quando era libera di muoversi e di respirare. La sua forza, il suo essere donna, la sua femminilità, dove erano nascoste ora? Da quanto tempo qualcuno non si occupava di quello smalto rosso intenso?
Che pensieri assurdi! Le balene, la loro forza in mare, la femminilità di quella signora... C'era ben altro da fare in quel momento. Gli infermieri avevano finito di aspirarla ed erano usciti dalla stanza. Ora lei era più tranquilla. Mi guardava con lo sguardo più disteso. All’improvviso forse perché le ero molto vicina e non solo fisicamente, ho pensato che le avrebbe fatto piacere un po’ di attenzione in più e forse aveva bisogno anche di altre forme di cura.
Ho chiuso la porta per creare una maggior intimità, mi sono tolta le calzature da ospedale e le ho fatto vedere lo smalto sulle dita dei miei piedi che era “uguale al suo”. Gesto, il mio, insolito da vedere in ospedale ma la signora ha subito sorriso.
Le ho chiesto se le faceva piacere il giorno dopo dedicare un po' del nostro tempo alla cura dello smalto dei suoi piedi e lei ha risposto di sì, convinta.
Uscita dalla stanza mi sono chiesta….ma come mi è venuto in mente, che sto facendo?
Le balene azzurre spiaggiate non si sa se potranno tornare a nuotare libere in mare aperto ma vengono continuamente bagnate dai volontari per stare meglio. lei era come una balena arenata: perché non provare a farla stare un po' meglio?
Il giorno dopo ho condiviso quell’idea di prendermi cura della persona con il medico, con il personale infermieristico e con gli OSS e ho chiesto loro collaborazione. Così, finita l’igiene quotidiana e terminati i trattamenti infermieristici di ruotine, sono rimasta sola con lei nella sua stanza.
Ho chiuso la porta per ricreare una nostra intimità e mi sono improvvisata “estetista “ in ospedale. Le ho fatto scegliere il colore che preferiva, ho fatto partire una musica e, come succede in ogni salone di bellezza, le ho avvolto le dita dei piedi con del cotone. Ogni donna sa bene cosa intendo. Ho steso lo smalto con cura e appena finito il lavoro le ho fatto vedere il risultato usando uno specchio. Lei sorrideva raggiante. Per un momento nella stanza il tempo si era fermato e tutta la sua attenzione era rivolta a quel color rosso intenso che dava risalto ai suoi piedi. Quasi un vezzo inutile in quel contesto, ma che faceva onore alla sua femminilità.
Osservavo le sue reazioni e sono rimasta molto colpita dal cambiamento della sua postura. Le sue spalle erano più aperte e lo sguardo era diventato complice e più femminile. Quando mi sono congedata ho lasciato le sue gambe scoperte perché si potesse vedere bene quanto ora i suoi piedi fossero curati.
Adesso toccava al medico e agli infermieri che avevano solo ricevuto l’indicazione di osservare quello che avevamo fatto.
Sono restata un po’ di tempo fuori dalla porta curiosa di vedere le loro reazioni e soprattutto di vedere quelle della signora. I tratti del suo volto si mantenevano distesi e il suo sguardo girava nella stanza. Ogni volta che una persona entrava e sottolineava con le parole il bel colore del suo smalto, lei era raggiante. Se l’apprezzamento veniva da un uomo il suo sguardo diveniva addirittura seducente. Quel giorno il numero delle sue chiamate era diminuito ed aveva collaborato meglio alle cure. Quel giorno sembra felice. Abbiamo pensato che si fosse sentita intera, non solo “oggetto di cura” ma persona completa, riconosciuta anche nelle sue parti sane e nella sua femminilità.
Era stato necessario uscire un po’ dagli schemi e accettare il rischio, seppur relativo, di proporre un’attività che andava oltre le prestazioni ospedaliere. La patologia spesso copre la completezza della persona però la persona non è solo la malattia. Le cure sanitarie, i trattamenti e l’applicazione di protocolli standardizzati sono necessari e indispensabili ma l’aver agito nel rispetto e nel riconoscimento della dignità di quella donna aveva smosso qualcosa d’altro che in quel momento sembrava essere trascurato.
Il tempo delle cure in Ospedale corre veloce e non basta mai. Resta sempre sospeso il desiderio di fare qualcosa in più. Che cos’ha favorito le condizioni adatte per quel tipo di attenzione? Un pensiero laterale? L’assunzione di responsabilità nel rompere alcuni schemi? Oppure l’aver accolto immagini leggere che arrivavano alla mente? Non lo so esattamente, so solo che alla paziente ha fatto bene.
La signora è stata poi dimessa, ha proseguito le cure in altra struttura e per un po’ di tempo quell’esperienza è rimasta viva tra i colleghi.
Alcune settimane dopo, ero a casa e stavo leggevo un giornale. La mia attenzione è stata catturata da una notizia relativa da uno dei frequenti salvataggi in mare. Era dato ampio spazio a discussioni intorno alla foto di una signora alla quale le volontarie avevano steso lo smalto sulle unghie delle mani, pare per rasserenarla. Qualcuno si domandava critico come facesse ad avere quello smalto; era appena stata tratta in salvo da un barcone: allora non stava poi così male e forse il salvataggio non era neanche vero…
Per un momento ho ripensato a quello che avevo vissuto in Ospedale, alla signora dello “smalto ai piedi” alla quale avevamo regalato non solo un momento di serenità ma anche, per un piccolo gesto apparentemente insignificante, la sensazione di sentirsi valorizzata nella sua dignità.
E perché quindi, nella vicenda letta sul giornale, non si poteva cogliere la stessa attenzione alla persona?
Perché non cogliere il significato “altro” e profondo di un gesto da parte di quelle volontarie, all’apparenza inutile ma invece così carico di umanità e di gratificazione per chi lo aveva ricevuto, al punto di non sentirsi perduta del tutto in un momento così tragico della vita?
Tanti di noi sono Educatori per scelta e per professione, ci sono poi (anzi prima) gli educatori investiti del dovere di esserlo (genitori, insegnanti…) e a mio parere lo sono state anche quelle volontarie.
In fondo ognuno di noi, nei momenti che gli sono più consoni può essere “educatore” attraverso piccole pratiche di cura dedicate al rispetto e alla difesa della persona e della sua dignità.
Autrice: Chiara Sambugaro, educatrice professionale presso l'Azienda ULSS Scaligera di Verona
copyright © Educare.it - Anno XIX, N. 2, Febbraio 2019
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