- Categoria: Esperienze a scuola
- Scritto da Patrizia Marchegiani
Con lo sguardo di Mendez. Una proposta di Educazione Civica per la Scuola secondaria di primo grado
L’idea del progetto documentato in questo articolo nasce da un vecchio progetto di educazione affettivo-relazionale, pensato diversi anni fa per i bambini scuola dell’infanzia[1], riadattato e riproposto poi agli alunni della scuola secondaria di primo grado e rivelatosi, in questo nuovo contesto, un ottimo strumento per prevenire qualsiasi forma di bullismo.
Mi dai una carezza? Un percorso di alfabetizzazione affettiva
Quando elaborai questo progetto, ancora fresca di PhD in Psicologia della Comunicazione, la mia attenzione si focalizzava essenzialmente sugli aspetti espressivi degli affetti. Consideravo fosse essenzialmente una questione “comunicativa”. Sentivo il bisogno di educare i miei alunni a manifestare i sentimenti positivi, di allenarli alle “parole del cuore”, di aiutarli a dare voce alle cose belle e a superare quel pudore che ci trattiene nel dire a noi stessi e agli altri le cose positive (mentre, addestrati dalla sempre maggiore aggressività di social e tv, non abbiamo alcun remora nello sputarci addosso gli uni gli altri quelle negative). Avevo trovato nel contesto dell’Analisi Transazionale di Eric Berne il principale riferimento teorico. Armata, quindi, dei concetti analitico-transazionali di “carezza”[2], “bisogno di riconoscimento”, “bisogno di stimoli”, “economia delle carezze”, “classificazione delle carezze” e con la consapevolezza che, soprattutto in età adolescenziale, si cresce troppo spesso in base ai principi di quella che Claude Steiner definisce l’“economia delle carezze”[3], miravo ad aiutare gli alunni ad usare, tra i diversi registri linguistici, anche il linguaggio degli affetti. Avevo l’obiettivo di favorire in loro la capacità di accogliere e comunicare gli affetti, l’abitudine a “ricevere e dare carezze”. D’altronde, poiché “senza carezze non si può vivere” e “qualsiasi carezza è meglio di nessuna carezza” (è meglio cioè dell’indifferenza), se non si è in grado di darle o peggio di riceverle, si va alla ricerca di “carezze negative”. È il caso, per esempio, di quei ragazzi che, pur di attirare l’attenzione, assumono atteggiamenti aggressivi e fortemente provocatori. O di chi va consolidando la strategia dei giochi e ricattamenti (racket) psicologici[4]. Ma anche di quelli che entrano in comportamenti autolesionisti o più o meno pericolosi[5].
Il percorso si articolava tutto intorno alla celebre Fiaba dei Caldomorbidi di Claude Steiner[6], metafora dell’imprescindibile bisogno umano di dare e ricevere, che veniva esplicitata anche nei suoi presupposti teorici e poi verificata nell’esperienza personale dei ragazzi con attività ed esercitazioni.
Questione di sguardo
Ben preso mi sono resa conto, però, che se saper dare ed accettare riconoscimenti positivi è fondamentale, ancor più urgente, perché quelle carezze sussistano, sorgano autentiche e non “di plastica”, per usare ancora il linguaggio AT, è saper ‘vedere’ il valore dell’altro. Al centro del percorso, così come lo sto sviluppando ormai da qualche anno nelle ore di Educazione Civica con le mie classe, non c’è più la sola ‘comunicazione’, ma prioritariamente lo ‘sguardo’. Uno sguardo da educare affinché sappia vedere il bene, in sé e negli altri.
I limiti di chi ci sta accanto (ma anche i nostri), infatti, spontaneamente ci balzano agli occhi in modo immediato e prepotente, tanto da finire spesso per identificare le persone unicamente con il loro difetto, schiacciandole su di esso[7]: “la cicciona”, “il taccagno”, “il buffone”, “la chiacchierona”… ma chi vive tra i ragazzi, ha ascoltato appellativi ben più colorati.
La persona, invece, non è mai il suo difetto o la somma dei suoi difetti, per quanto possano grandi ed evidenti possano apparirci, perché è sempre e comunque molto di più. Un Infinito di più: è un valore assoluto, a prescindere da tutto, “terreno sacro davanti al quale togliersi i calzari” come ripeto spesso ai miei alunni. Questo, ovviamente, lo deve anzitutto vivere l’insegnante con il suo, di sguardo, sui ragazzi: chi prende costantemente 4 tutto l’anno, chi non studia mai, chi ti provoca, chi lo acciaccheresti per quanto ti innervosisce, chi usa un comportamento ai limiti della delinquenza e colleziona sanzioni disciplinari, chi ti fa impazzire e perdere la pazienza, ciascuno vale comunque l’Infinito, l’Assoluto. Una posizione, questa, che un educatore, in quanto tale, deve tener ben salda, rispetto i sui suoi alunni -e non solo-, e che non può permettersi di perdere nemmeno un istante. Una posizione che va testimoniata e, all’occasione, anche esplicitata (quante volte ricordo ai miei ragazzi la loro unicità e irripetibilità!).
Una premessa, questa, probabilmente scontata, ma forse anche no, perché l’esperienza ci insegna che purtroppo non sempre tutti gli insegnanti hanno ben ferma questa posizione davanti ai propri alunni. Senza questa posizione, in nel progetto presentato, si finirebbe in una dannosa schizofrenia.
Chiarito questo, riporto di seguito le fasi del percorso con cui, da qualche anno, introduco e completo il vecchio progetto:
- Visione del cortometraggio Il circo della farfalla (The Butterfly Circus), 2009, diretto da Joshua Weigel (facilmente reperibile in Youtube)
- Approfondimento insieme: Che sguardo abbiamo su di noi e sugli altri? Quello del capo circo del Carnival che, con i “fenomeni da baraccone”, cerca ed espone i difetti della gente e ne ride divertito, o quello di Mendez del Circo della Farfalla che scommette e mette in luce il positivo degli altri? Cos’è che che fa cambiare Will? La sola forza di volontà… o magari ‘lo sguardo’ di Mendez che vede in lui non ciò che gli manca, ma le potenzialità che nemmeno Will stesso sa di avere? E noi? Cosa ci cambia? Non siamo tutti un po’ Will? Non abbiamo forse tutti qualche handicap (magari abbiamo braccia e gambe, a differenza sua, ma… qualcosa ci manca pur sempre: sempre sentiamo che non siamo ‘abbastanza’ qualcosa, soprattutto durante l’adolescenza)? E io chi sono per gli altri, il capo circo del Carnival o quello del Butterfly? Quale dei due è il mio sguardo, su di me e sugli altri? Ho incontrato qualcuno che mi ha guardato e mi guarda come Mendez? Perché se quello sguardo non l’ho sentito anzitutto su di me da parte di qualcuno (a volte anche di Qualcuno), se non l’ho vissuto anzitutto su di me, difficilmente saprò offrirlo ad altri: Mendez tifa talmente per Will che, quando ce la fa, danza e si commuove pure.
- Ascolto di una delle tante interviste a Nick Vujicic, attore che impersona Will (ce ne sono molte su Youtube): il ‘Circo della Farfalla’, in fondo, è una storia vera. È la storia di Vujiucic: anche lui, come Will, è passato dal disprezzarsi per i suoi difetti (fino a pensare addirittura al suicidio) ad una vita piena, felice e realizzata. E anche lui, nella vita reale, ha incontrato lo sguardo del suo Mendez; per lui, lo sguardo stesso di Dio, declinato in quello delle diverse persone importanti della sua vita.
- Gioco dell’amico segreto[8] (ovvero, “alleniamo il nostro sguardo per imparare a guardarci fra noi come Mendez”). Ciascun ragazzo estrae a sorte il nome di un compagno, nome che deve rimanere segreto per tutti, tranne che per chi lo estrae. Per due settimane, ciascuno dovrà osservare ‘segretamente’ il compagno di cui ha sorteggiato il nome e cercarne gli aspetti positivi (ovvero, tutto ciò che apprezza dell’amico: possono essere sia caratteristiche che sono per lui da stimolo -che quindi anche lui possiede- o, viceversa, qualità a lui complementari -che quindi l’osservatore non possiede. La complementarietà, infatti, occupa nelle relazioni il posto che altrimenti occuperebbero vissuti negativi come l’invidia o la gelosia.
I caratteri positivi individuati vengono via via appuntati e, dopo due settimane, in un giorno stabilito, ciascuno dovrà aver scritto una lettera al compagno estratto a sorte, raccontandoglieli, in uno testo ricco di carezze positive (non importa se solo “condizionate”, riguardanti qualcosa che l’amico ha o fa o “incondizionate”, riguardanti ciò che l’amico è; l’essenziale –regola che tutti si impegnano a rispettare– è che siano sincere).
I ragazzi normalmente lo accolgono come un gioco molto divertente, di solito chiedono di continuare a giocarlo continuativamente fino alla terza media. Ma non è un gioco. È un allenamento molto serio e utile, non solo perché li aiuta a dare parole ai loro sentimenti (il linguaggio degli affetti, per l’appunto), ma anche e soprattutto perché esercita ed educa il loro sguardo a guardare e trovare il bene negli altri. Un allenamento che, col tempo, diviene un abitus molto prezioso. Perché, se gli altri (e se stesso con loro) vengono ingiustamente ridotti a cumulo di difetti e limiti, sarà duro e doloroso vivere tra loro. Ma se si impara che gli altri sono valori e hanno valori, aspetti positivi da imitare o con i quali entrare in complementarietà (“gareggiate nello stimarvi a vicenda”[9]) , allora, sì, che stare insieme diventa davvero bello (“com'è bello e com'è dolce che i fratelli vivano insieme![10]) e davvero si creano le condizioni per aiutarsi a crescere e migliorarsi reciprocamente.
NOTE
[1] P. MARCHEGIANI, Mi dai una carezza? Un progetto di educazione all’affettività nella scuola dell’Infanzia, «Tresei Scuola Infanzia», anno 2, n. 5, ottobre 2008.
[2] René Spitz osservava come i neonati cresciuti in un orfanotrofio, malgrado fossero ben nutriti, puliti, curati, protetti al caldo, fossero più vulnerabili emotivamente e fisicamente rispetto agli altri, finanche alla morte: la differenza fondamentale, secondo Spitz, è da rinvenirsi proprio nel fatto che, senza una persona che si prendesse direttamente cura di loro, i bambini dell’orfanotrofio mancavano di stimolazioni e, in particolare, mancavano di stimolazioni fisiche, di contatto corporeo, di carezze, di abbracci e dei tipici vezzeggiamenti che si fanno ai neonati. (R. SPITZ, Hospitalism, Genesisi of Psychiatric Conditions in Early Childhood, in “Psychoanalytic Study of the Child”, International Universitiees Press, New York 1964). La scelta del termine “carezza”, in Analisi Transazionale, si riferisce proprio a questo bisogno di essere ‘toccati’, che, da adulti, pur permanendo anche in questa forma di ‘bisogno di contatto fisico’, si converte tuttavia in altre forme di riconoscimento: un saluto, un sorriso, un cenno con la testa, un’occhiata, ma anche un insulto, uno schiaffo, un’occhiataccia sono forme di riconoscimento: qualsiasi cosa ci mostri che l’altro ha riconosciuto la nostra esistenza, insomma, è una forma di riconoscimento, una carezza. L’Analisi Transazionale, più precisamente, definisce la “carezza” come l’“unità di riconoscimento di vario tipo che procura stimoli nell’individuo” (Cfr. S. WOOLLAMS. M BROWN, Transactional Analysis. A Modern and Comprehensive Text of TA Theory and Practice, 1978, tr. it., Analisi Transazionale. Psicoterapia della persona e delle relazioni, Cittadella, Assisi 1998, p. 75. Cfr. anche I. STEWART, V. JOINES, TA today, 1987, tr. it., L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Milano 2000).
[3] “1. Non dare carezze quando ne hai da dare; 2. Non chiedere carezze quando ne hai bisogno; 3. Non accettare carezze se le vuoi; 4. Non rifiutare carezze quando non ne vuoi; 5. Non dare carezze a te stesso”. (C. STEINER, Scripts People Live, Grove Press, New York 1974). 1969)t., 75.dere ndaria di primo gradomplementarietàa crescere e migliorare reciprocamenteme diventa davvero bello comunque val
[4] Giochi e ricattamenti sono “sistemi appresi come vie sostitutive per avere carezze e ambedue comportano una svalutazione di sé e/o dell’altra persona” (S. WOOLLAMS. M BROWN, Transactional Analysis. A Modern and Comprehensive Text of TA Theory and Practice, op.cit., p. 177). Cfr. anche E. BERNE, A che gioco giochiamo?, Bompiani, Milano 1969.
[5] Si pensi anche a problematiche quali l’anoressia, la bulimia, l’abuso di alcool o di droghe o, per i ragazzi più grandi, le gare di velocità delle macchine con i treni per attraversare il passaggio al livello senza barra; la roulette russa con la pistola o le varie challenge continuamente lanciate su Tiktok.
[6] Si tratta di una metafora psicologica, scritta dall’allievo di Berne, che dà voce al bisogno di riconoscimento e rappresenta le diverse possibilità di soluzione al bisogno di stimoli e alla gestione delle carezze. In essa, le carezze positive vengono raffigurate come strani e piacevoli oggetti: i “caldomorbidi”, per l’appunto: “avevano la dimensione di un piccolo pugno di bambina ed un colore caldo e tenero. […] Quando erano posti sulla spalla di una persona, o sulla testa, o sul petto, e venivano accarezzati piano piano si scioglievano, entravano nella pelle e subito la persona si sentiva bene e per lungo tempo”. I “freddoruvidi”, invece, simboleggiano tutti i vari surrogati di carezze (i tornaconti dei giochi, le carezze negative, ecc.). Cfr. C.STEINER, Warm Fuzzy Tale ,1969, tr.it, La favola dei Caldomorbidi, Artebambini, Bologna 2009.
[7] Su questo tema si veda la trattazione sulla meraviglia nelle relazioni interpersonali (che costituisce il “contrario psicologico” della tendenza a stigmatizzare qualcuno nel proprio difetto) in G. GALLI, Psicologia delle virtù sociali, CLUEB, Bologna 1999, pp 8-101. Il testo di Galli è stato recensito, proprio per una rivista scolastica, e dunque con un taglio particolare agli aspetti educativi della questione in una mia recensione comparsa in «Innovazione Scuola», anno XIII, n. 2, aprile-giugno 2004, p. 62. Lo stesso tema della meraviglia nelle relazioni interpersonali viene affrontato infine nel mio testo Meraviglia e scandalo nel Vangelo di Marco, Aracne, Roma 2008.
[8] L’esercizio viene proposto e spiegato nella guida didattica per l’I.R.C. di P. MARCHEGIANI, D. MECENERO, Campane in festa, Tresei scuola, Chiaravalle 2004.
[9] Rm 12, 10.
[10] Sl 133, 1.
copyright © Educare.it - Anno XXIII, N. 12, Dicembre 2023