- Categoria: Scuola e dintorni
- Scritto da Rosalba Miceli
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Scuola: diagnosticare o educare?
Nel lavoro sociale con i minori, come è possibile entrare in una comprensione fine delle situazioni singolari e problematiche? Alcuni talvolta sono tentati di sostenere slogan quali: «Tutto è educazione», mantenendo una responsabilità pedagogica ad oltranza, oppure «Tutto è psicoterapia», optando innanzi tutto per una categorizzazione diagnostica. Ma occorre davvero scegliere tra uno sguardo pedagogico e uno sguardo clinico-terapeutico? Philippe Meirieu, illustre pedagogista di fama internazionale, molto discusso in Francia a causa della sua ideologia «pedagogista» egualitaria, e ancora poco noto in Italia, prova a dare alcune risposte nel breve saggio Diagnosticare o educare: occorre scegliere?, un testo di riflessione sul ruolo della pedagogia e dell’educazione nella società attuale, tradotto da Alain Goussot, docente di Pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, e pubblicato sulla rivista Educazione Democratica (Edizioni del Rosone, Foggia, 2012), consultabile gratuitamente in versione elettronica.
“Si rischia sempre di chiudere l’altro nel medesimo invece di accettare di aprirsi alla sua alterità. Sulla scia del nominare si sfiora sempre l’abuso della reificazione. Ma siamo forse condannati alla reificazione per organizzare le relazioni tra gli uomini? Si tratta forse di uno degli aspetti del tragico della nostra condizione umana? Certo è che la reificazione è una cosa terribile, la reificazione è categorizzazione, chiusura etimologica, classificazione dentro una «classe» – spiega il pedagogista, affrontando il tema delle insidie insite in ogni categorizzazione –. Pertanto non è incongruente chiedersi se si può fare esistere del sociale senza classificazione cioè senza una forma di reificazione. Senza dubbio siamo dolorosamente e ineluttabilmente condannati, in educazione come in medicina e in politica (i «tre mestieri impossibili» di Freud) alla reificazione: non possiamo «gestire» gli uomini senza metterli sotto un segno che ci permetta di raggrupparli.
Sembra impossibile agire, nella minima istituzione, o anche soltanto concepire un’azione con degli esseri umani, senza mobilitare delle classificazioni: uscire dal caos è inconcepibile senza una forma di suddivisione”.
“L’agglomerato indifferenziato degli umani si può combattere solo assegnando dei posti: categorie, gruppi e club, classi e tipologie, classi e gerarchie. Chi può pretendere di farne a meno? – continua Meirieu –. Chiunque s’immagini di potersi sbarazzarsi delle sue «impressioni» lottando contro i suoi pregiudizi s’illude sul proprio funzionamento mentale. Ma bisogna assolutamente rifiutare di trasformare in «identità» ciò che è solo un momento analizzato attraverso una griglia di lettura molto discutibile… La pedagogia per me significa sapere nominare senza reificare, identificare senza rinchiudere, precedere senza anticipare, regolare senza regolarizzare. La pedagogia sa che lavora all’interno di strutture imperfette di cui tuttavia non può fare a meno”.
La riflessione di Philippe Meirieu, ruota attorno alla domanda quasi inconfessabile: “Ma cosa facciamo degli alunni che non vogliono imparare?”, rivendicando l’importanza del “momento educativo” proprio quando si percepisce la resistenza dell’educando di fronte a progetti, obiettivi e volontà dell’educatore. In ultima analisi, in questo saggio e in altre pubblicazioni più recenti, come Pedagogia. Il dovere di resistere (Edizioni del Rosone, 2013), Philippe Meirieu sottolinea la specificità dello sguardo pedagogico, uno sguardo non giudicante, ma valorizzante e orientato a scoprire le potenzialità della persona come soggetto del proprio percorso di crescita e sviluppo.
Fonte: LaStampa.it, 03/03/2014