- Categoria: Pedagogia interculturale
- Scritto da A. Niero, L. Pasqualotto
Alcune cause del fenomeno migratorio
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Cosa spinge un individuo a lasciare il proprio Paese, i propri affetti, la propria cultura per iniziare un percorso fatto di difficoltà e solitudini, destinato a giocarsi a lungo tra la memoria del passato ed un progetto per il futuro pieno di incertezze?
I motivi di una decisione così importante e sofferta sono senz’altro molteplici e comunque interagenti tra loro. In ogni caso sembra certo che coloro che decidono di emigrare siano sottoposti ad una notevole "pressione", risultante dall'azione congiunta di alcuni fattori che li spingono ad uscire e di altri che li attraggono (push-pull factors).
Ma prima di esaminare tali fattori, è opportuno soffermarci sulle cause di carattere storico-politico.
Colonialismo e neocolonialismo
A partire dall'ultimo quarto del secolo XIX, è indubbio che uno dei fenomeni di maggiore rilevo storico sia stato la spartizione del mondo in possedimenti coloniali o in varie zone d'influenza delle grandi potenze europee.
"II colonialismo moderno è strettamente legato allo sviluppo capitalistico: la spinta fondamentale derivò infatti dalla necessità di materie prime e sbocchi di mercato per i prodotti finiti. II dominio politico apparve come la migliore garanzia per gli investimenti economici delle grandi Potenze europee in Asia e in Africa. In particolare durante il XIX secolo, il consolidamento del modello di produzione capitalistico e del libero scambio ha portato a considerare il mondo come un unico grande mercato, dominato da potenti imprenditori e capitalisti. Esiste in questo modo la possibilità di realizzare ingenti guadagni a condizione che le materie prime e i costi di produzione siano bassi e che le aree di investimento e di vendita siano sempre più ampie"(1).
Quello che ci interessa sottolineare, ai fini del nostro discorso, riguarda gli esiti del sistema coloniale. Senza voler esprimere un giudizio negativo tout court sul colonialismo, è innegabile che esso abbia imposto "un modello di divisione internazionale del lavoro in base al quale ai Paesi dominati era riservato il ruolo di fornitori di materie prime del suolo e del sottosuolo, a costi molto bassi, anche grazie al lavoro della manodopera indigena o appositamente deportata (schiavitù); ai Paesi colonialisti, tecnologicamente più avanzati, spettava il compito di produrre i manufatti, beni a più alto valore aggiunto e dunque più remunerativi"(2).
Gli effetti sono stati gravosi. Con grande lucidità lo storico francese Yacono ha scritto: "La più grande rivoluzione di tutti i tempi è stata forse quella che, per mezzo della colonizzazione, ha gettato l'europeo e i suoi capitali come fermenti in mezzo a popolazioni assopite, determinando uno sconvolgimento demografico, economico e sociale assolutamente imprevedibile e preparando l'entrata sulla scena mondiale di quello che doveva essere il Terzo Mondo"(3).
Il sistema coloniale entra definitivamente in crisi dopo la seconda guerra mondiale, grazie ai movimenti nazionalisti ed indipendentisti che si svilupparono nelle colonie già dai primi decenni del `900. Due avvenimenti possono assumersi come emblematici di questa fase: l'indipendenza riconosciuta all'lndia dalla Gran Bretagna nel 1947 e la Conferenza di Ginevra nel 1954, a conclusione della 1° guerra d’Indocina, con la quale la Francia dovette rinunciare alle sue pretese sulla regione indocinese, che venne smembrata tra gli Stati sovrani del Laos, della Cambogia, del Vietnam del Nord e del Sud.
"All'indipendenza politica, tuttavia, non ha fatto seguito quella economica. Una volta raggiunta l'indipendenza questi Stati si sono trovati a scegliere tra due modelli di sviluppo industriale: quello capitalistico occidentale e quello socialista sovietico. Scegliendo l'uno o l'altro, oppure cercando di seguire una terza via che conciliasse la pianificazione sovietica con lo sviluppo delle borghesie nazionali e dell'iniziativa privata, la maggior parte degli Stati ex-coloniali ha dovuto richiedere assistenza tecnica e finanziaria alle Nazioni più ricche. Lo sfruttamento da parte dei Paesi industrializzati ha potuto continuare, subordinando le Nazioni del Sud del Mondo ad un nuovo "colonialismo" di carattere economico"(4). Le grandi multinazionali sono l'emblema tipico di questo "neocolonialismo".
Fattori di espulsione (push factors)
Dopo questa rapida panoramica sugli antefatti storici, vediamo ora di analizzare le cause attuali più rilevanti che spingono enormi masse di individui a lasciare il proprio Paese. Tra queste, ai primi posti vi è senza dubbio l'esplosione demografica in molti Stati del Terzo e Quarto Mondo: in altri parole si ripropone il problema malthusiano del rapporto tra popolazione e risorse (5).
Mentre nel XVIII secolo la popolazione della Terra aumentava al ritmo di un quarto di miliardo ogni 75 anni, oggi il medesimo incremento si verifica ogni tre anni. Nel 1825, quando Malthus terminò il suo Saggio, gli abitanti del pianeta erano un miliardo e diventarono due miliardi nei cento anni seguenti. Si noti come, al raddoppio della popolazione del mondo negli ultimi 40 anni (da 2, 5 a 5, 3 miliardi), i Paesi sviluppati abbiano contribuito per soli 400 milioni, mentre i Paesi in via di sviluppo per ben 2,4 miliardi (6).
Questa esplosione demografica mette in moto una migrazione senza precedenti, dato che il suo epicentro si trova nelle zone povere del pianeta, dalle quali masse di esseri umani si spostano verso le zone più ricche e sviluppate. Dai "giganti demografici" come l'Africa, l'India, la Cina, il Pakistan, l'Indonesia, il Brasile, il Messico, il Sudest asiatico (7) partono spinte che mettono in moto un esodo sud/nord che ha raggiunto proporzioni colossali.
All’aumento della natalità è unita una brusca caduta del tasso di mortalità anche nei Paesi sottosviluppati, sebbene quest’ultimo resti molto elevato rispetto a quello dei Paesi Occidentali. Vi è poi il fenomeno del progressivo invecchiamento della popolazione nei Paesi occidentali, mentre quella dei Paesi non sviluppati diventa sempre più giovane. Ciò comporta una contrazione relativa della popolazione in età produttiva nei Paesi sviluppati e, nel contempo, l'aumento smisurato dell'"esercito di riserva" dei disoccupati nel Terzo mondo. Il differenziale di crescita della popolazione in età lavorativa tra Paesi non sviluppati e Paesi sviluppati è in continuo aumento (da 3 a 1 nel 1960, da 9 a 1 nel 1983, a 13 a 1 nel 2000); l'Africa, addirittura, presenta oggi rispetto all'Europa un rapporto di 20 ad uno (8).
Secondo molti osservatori, la pressione migratoria per motivi strettamente demografici non sarebbe un fattore di espulsione incontrollabile senza il concomitante peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione. Per la crescente sperequazione interna nei Paesi poveri, ma anche in quelli a livello intermedio, il numero delle persone in assoluta povertà è in aumento. D'altra parte, nel rapporto Paesi poveri-Paesi ricchi, si constata un drammatico divario: l'80% della popolazione mondiale ha a disposizione solo il 20% delle risorse, in quanto il 20% della popolazione dei Paesi ricchi consuma l'80% delle risorse del mondo.
Molti abitanti dei Paesi del Terzo mondo sono sottoposti a forti migrazioni interne verso le città ; ciò determina un processo di urbanizzazione incontrollato, che provoca altra povertà, degrado ambientale, tracollo dei trasporti e dei servizi essenziali.
In molti Paesi, l'unica risposta ai problemi sempre più gravi di tipo economico e sociale è stata la dittatura al servizio di ristrette oligarchie o di posizioni di potere. Nei primi anni '70 milioni di esuli si sono riversati verso Paesi a democrazia ed economia consolidata dall'America del Sud, dalle Filippine, ma anche dai Paesi a noi più vicini: Grecia, Turchia, Polonia.
Se la tipologia del "rifugiato politico" è ampiamente riconosciuta ed accettata, "non rientrano, invece, nell'ambito delle protezioni internazionali i rifugiati economici, per i quali vale lo stesso principio di espulsione dal paese di origine: l'impossibilità o l'incerta possibilità di sopravvivenza fisica nel proprio territorio, questa a motivo della non disponibilità di lavoro" (9).
In alcune aree geografiche, ai fattori sopracitati, si aggiungono situazioni di grave degrado ecologico. In generale, la situazione ambientale nei Paesi del Sud del mondo sembra essere divenuta negli ultimi anni più grave di quella dei Paesi del Nord. "Il problema che si presenta con maggiore evidenza è la diminuzione del suolo adatto allo sfruttamento agricolo. Le cause di questo fenomeno sono molte: l'avanzata dei deserti causata dai cambiamenti climatici e dalle attività umane, la progressiva salinizzazione dovuta all'intensa vaporizzazione che avviene in un suolo tropicale sottoposto ad irrigazione; l'erosione causata da un cattivo sfruttamento del territorio; l'urbanizzazione che avviene in modo incontrollato; l'allevamento intensivo di animali destinati ai consumatori del Nord; l'uso del territorio per la coltivazione di un unico prodotto. Inoltre la distruzione delle foreste (specialmente in America Latina) per dare spazio ai pascoli, per il commercio di legni pregiati o per lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo; le discariche ad alto rischio di materiale fortemente inquinante proveniente dalle industrie dei Paesi del Nord; l'uso di pesticidi tossici che negli Stati industrializzati sono proibiti da tempo. Il problema non è da sottovalutare anche per quanto riguarda le migrazioni, tanto che nei più recenti studi si è iniziato ad individuare una nuova "categoria" di emigranti: i profughi ambientali o ecologici"(10).