- Categoria: Pedagogia interculturale
- Scritto da A. Niero, L. Pasqualotto
Diverse modalità di integrazione
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Chi decide d'intraprendere un percorso migratorio deve affrontare anche il problema dello sradicamento, inteso come perdita della cultura, la difficoltà di rimettere radici. Perciò l'emigrato viene facilmente rappresentato come un portatore di sofferenze, di conflitti, per se stesso e per gli altri. Questo è stato l'unico paradigma usato in tanti anni verso gli immigrati, che poi si è tradotto in interventi pedagogici, psicologici, sociali di tipo compensatorio in modo da "limitare i danni". Ma a partire dagli anni '60 questo concetto è stato rivisto.
Chiarito il fatto che la cultura, "intesa non solo in senso classico come teoria, visione di vita, ma in senso moderno, più ampio, cioè come modus vivendi" (1), non è un'entità stabile e definita ma una realtà permeabile e dinamica, il problema diventa quello d'integrare standards culturali diversi e talvolta contraddittori.
Abbiamo già avuto modo di affermare che l'acquisizione di una propria identità avviene anche attraverso un riconoscimento reciproco tra l'individuo e la società genericamente intesa. Il problema dell'identità per l'immigrato è quindi strettamente legato alla "qualità delle relazioni che il soggetto costruisce/sperimenta nei vari contesti di vita" (2). Ma, poiché l'extracomunitario nella maggior parte dei casi, è una persona con scarsa o nulla contrattualità sul piano delle relazioni, il problema va posto, più correttamente, al contrario: come la società "accoglie" chi proviene da un altro Paese?
Oggi si possono distinguere diversi modelli codificati di rapporto con lo straniero, nessuno dei quali è stato ancora adottato in via prevalente dall'Italia, probabilmente perché finora il nostro Paese è stato molto più terra di emigrazione che di immigrazione.
Il modello della fusione
E' stato adottato nelle Americhe e in Australia, Paesi "giovani", pervenuti alla configurazione attuale proprio grazie all'immigrazione. Lo sforzo compiuto è stato quello di fondere le varie culture presenti, per dar vita ad una nuova "società etnicamente e culturalmente omogenea. Tale modello è stato definito "melting pot", ossia crogiolo di razze" (3).
Nei fatti si è visto che ciò non è possibile, poiché l'uomo non si lascia spogliare della sua cultura, dei suoi credo per assumere artificialmente qualcosa che non gli appartiene. Tutti i componenti si sono avvicinati pacificamente, ma senza che vi fosse la fusione sperata, anzi addirittura alcuni gruppi si sono "ghettizzati".
Il modello dell'assimilazione
L'adattamento degli emigrati nel Paese di arrivo, definito come "assimilazione", veniva inteso, in analogia al relativo concetto biologico, come un processo che tendeva ad una situazione di completa conformità a tutti i livelli sociali e culturali degli stranieri con le società di accoglimento, in modo da diventare "invisibili", cioè non identificabili rispetto ai nativi.
Nell'uso sempre più generale del termine, si è andata progressivamente accentuando una concezione limitativa, rigida ed etnocentrica del processo di inserimento dell'immigrato, secondo l'ottica unilaterale dei Paesi di arrivo (4).
Tale modello è stato perseguito soprattutto dalla Francia, in particolar modo nei confronti delle colonie. Partendo dal presupposto che la propria cultura fosse la migliore, ha cercato di imporla ai Paesi colonizzati ed agli immigrati in Francia. Ma anche questa modalità si è rivelata poco praticabile, essenzialmente per lo stesso motivo cui si accennava precedentemente: l'uomo non si lascia convincere ad abbandonare la propria cultura, per assimilarne artificialmente un'altra.
Il modello della segregazione
Per vivere pacificamente, alcuni Paesi, come il Sudafrica, hanno preferito creare ghetti in cui costringere, in condizioni di oppressione formale e sistematica, le minoranze etniche in nome della loro presunta inferiorità razziale. La storia recente ha insegnato però che l'essere umano non si lascia segregare, soprattutto quando ciò significa vivere con minor diritti.