- Categoria: Pedagogia interculturale
- Scritto da A. Niero, L. Pasqualotto
Il fenomeno migratorio
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La decisione di lasciare il proprio Paese per raggiungerne un altro non è un fenomeno nuovo: tutta la storia dell'uomo sembra essere caratterizzata da una costante mobilità di singoli, di gruppi, talvolta di interi popoli, da una regione all'altra della terra, alla ricerca di migliori condizioni di vita.
In un passato ancora recente, la stessa Europa, che oggi affronta con preoccupazione il problema dell'immigrazione, fu la base di partenza di un massiccio flusso migratorio. Si calcola che dal 1820 al 1914 circa 40 milioni di europei, tra cui 7 milioni di italiani, siano sbarcati nel continente americano (1). A tal proposito scrive Enzesberger, un eminente studioso di queste tematiche: "Per molto tempo in Europa ci si è preoccupati più delle conseguenze dell'emigrazione che di quelle dell'immigrazione. La discussione in tal senso risale al diciottesimo secolo. (...) All'epoca, l'emigrazione era considerata un salasso e si cercava di limitarla e persino di vietarla. In molti stati si condannavano a punizioni corporali e alla pena capitale non solo chi cercava di emigrare clandestinamente, ma soprattutto chi faceva opera di proselitismo o aiutava a espatriare ... Già Luigi XIV faceva sorvegliare strettamente le frontiere per impedire ai suoi sudditi di abbandonare il paese, e in Inghilterra il divieto di espatrio per lavoratori specializzati fu in vigore fino alla metà del diciannovesimo secolo"(2).
Le cause che spingono ad emigrare sono riconducibili, anche in epoche diverse, agli stessi fattori e principalmente ad uno sviluppo ineguale tra il paese di partenza e quello di arrivo (vedi approfondimento). Attraverso la mobilità infatti l'uomo ha cercato nella storia di riequilibrare il rapporto fra risorse necessarie e risorse disponibili in un determinato territorio.
Ciò che appare invece nuovo nelle migrazioni verificatisi negli ultimi 50 anni riguarda piuttosto le direttrici del flusso migratorio e le dimensioni quantitative del fenomeno. In passato il movimento di popolazioni partì da società tecnologicamente avanzate verso altre meno sviluppate: si pensi ad esempio alla massiccia colonizzazione del continente americano. L'emigrazione contemporanea invece muove principalmente dai Paesi meno sviluppati in direzione dell'Europa, del Nord America, dell’Australia. Inoltre, in passato il flusso riguardò solo decine di milioni di uomini e si protrasse lungo i secoli; al presente sembra riguardare invece un numero ben più elevato di persone ed è concentrato in poche decine d’anni: la Population Division del Departement for Economic and Social Information and Policy Analysis del Segretariato delle Nazioni Unite riporta che sono 105 milioni gli individui viventi al di fuori del proprio paese di origine. Se poi si considerano anche le migrazioni interne ad uno stato, ed in particolare gli spostamenti campagna-città, il Segretariato delle Nazioni Unite stima che, a livello mondiale, si possa attribuire lo status di "immigrato" a circa un miliardo di persone (3).
Le migrazioni nei Paesi Europei
Il 1950 rappresenta l'anno di svolta nel saldo migratorio tra l'Europa e il resto del mondo. L'Europa, o meglio, i Paesi più industrializzati di essa, diventano importatori di manodopera dai Paesi del Terzo mondo. A partire dal dopoguerra fino ai nostri giorni, si individuano tre fasi distinte del processo migratorio in Europa (4).
La prima fase si situa tra gli anni '50 e '60. Molti Paesi sono interessati alla ricostruzione post-bellica e i Paesi più industrializzati (Francia, Germania, Gran Bretagna, Svizzera, Belgio), in cui già in precedenza era presente un iniziale flusso immigratorio, lo accentuano anche con precise politiche di reclutamento di manodopera. In questo periodo la provenienza degli immigrati è molto consistente, soprattutto dai Paesi dell'Europa meridionale meno sviluppati (Italia in testa).
L'espansione economica, che dura per tutti gli anni sessanta, porta l'incidenza della manodopera immigrata in molti Paesi a livelli del 10% del totale degli occupati, fino ad arrivare ad un terzo in alcuni settori produttivi.
In una seconda fase (dal 1967 al 1982), assistiamo ad una crisi strutturale dei settori produttivi trainanti (edilizia, metallurgia, meccanica), aggravata dagli aumenti del petrolio (1971 e 1973), per cui le migrazioni subiscono un contraccolpo notevole, con l'adozione di politiche restrittive verso gli immigrati.
Nel contempo, i Paesi europei a forte vocazione emigratoria (come l’Italia) diventano Paesi di immigrazione a seguito della ristrutturazione delle attività produttive; la manodopera autoctona viene occupata nei ruoli più specializzati, mentre alla forza-lavoro immigrata vengono lasciate le mansioni di basso profilo, più faticose e rischiose.
La terza fase (dal 1982 ad oggi) viene definita come quella "della crisi globale dei Paesi sottosviluppati" e nel contempo segna la ripresa delle economie capitalistiche. I processi di ristrutturazione industriale, che si situano alla base della ripresa, hanno sempre meno bisogno di manodopera e pertanto, se le migrazioni riprendono in modo consistente, lo si deve soprattutto all'effetto di forze espulsive nei Paesi di origine. In questi ultimi anni, agli spostamenti sulla direttrice sud-nord del mondo, si è affiancato un importante flusso dai Paesi dell'Est europeo.
Circa l’aspetto quantitativo, "si consideri che un immigrato può essere legale, illegale (entrato legalmente ma rimasto al di fuori della normativa) e clandestino (entrato senza documentazione ufficiale). Le rilevazioni possono dare una misura approssimata solamente del primo aspetto, mentre la quota illegale e quella clandestina possono essere soltanto stimate"(5). Secondo i dati ufficiali, gli stranieri rappresentano il 9% della popolazione belga, l'8% di quella tedesca, oltre il 6% di quella francese, più del 3% di quella inglese e l'1,4% di quella italiana. Si tratta, in totale, di quindici milioni di persone, di cui dieci extracomunitarie, alle quali l'O.C.S.E. prevede, per i prossimi trent'anni, che se ne aggiungano altri trenta milioni.
Secondo le stime della Caritas di Roma, oltre ai quindici milioni di stranieri totali presenti nei Paesi dell'Unione Europea, altri sette-otto milioni sono i clandestini. Di questi ultimi, circa due-tre milioni risiedono più o meno stabilmente in Grecia, Portogallo, Spagna e Italia (6). L'importanza di questi quattro Paesi, all'interno del contesto della migrazione clandestina, è costituito dal fatto che essi non sono in grado di controllare i quasi quarantamila chilometri di sviluppo costiero mediterraneo, attraverso i quali gli stranieri riescono più facilmente a raggiungere l'Europa.
Emigrazione ed immigrazione in Italia
Durante tutto l'arco della prima fase emigratoria (anni ’50 e ’60), l'Italia provvede al fabbisogno di manodopera delle sue zone a maggiore sviluppo, utilizzando il grande serbatoio di riserva dato dal Meridione e, in parte minore, dal Nord-Est.
Nello stesso tempo continua l'emigrazione da queste aree del Paese verso le Americhe, l'Oceania e l'Europa settentrionale.
Durante la seconda fase (1967-1982), l'Italia è interessata prevalentemente da significativi flussi di ritorno. Nel contempo inizia una immigrazione dai Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo e da Paesi più lontani: Capoverde, Eritrea, Iran, Filippine, Cile, Uruguay, Argentina, Brasile. Si tratta molto spesso di esuli, profughi o rifugiati politici costretti all'esodo dai Paesi d'origine a causa delle dittature che vi si sono instaurate.
Durante la terza fase (dal 1982 ad oggi), in seguito all'adozione di politiche restrittive da parte di Paesi come la Germania e la Francia ed alla guerra civile jugoslava, vi è verso l'Italia e gli altri Stati dell'Europa Mediterranea una nuova pressione migratoria.